venerdì 23 marzo 2018

Mendicanti di sguardi. Un aperitivo, gente che corre e il bisogno primario di essere visti.

Seduto ad un bar della stazione Termini, in attesa di un treno, pronto per tornare a casa. Penso agli incontri di oggi: ho tenuto un corso di formazione per docenti. Tematiche complesse, scottanti, a volte sanguinanti: disagio infantile, sofferenza familiare, deprivazione socio-culturale, storie di abusi e maltrattamenti, di povertà e violenza. Mi frullano ancora in mente le richieste di aiuto, le riflessioni sulle storie difficili di molti bambini, la denuncia di un sistema sociale che produce situazioni malate. E le loro parole di uomini e donne in trincea - la scuola assomiglia sempre di più ad un campo di battaglia- si confondono con le immagini frenetiche che i miei occhi consumano insieme ad un aperitivo analcolico. Una porzione di umanità che si muove, si sposta, parla, consuma, sorride e si abbraccia, si urta e si urla in un caos apparentemente privo di senso. E io qui, a questo tavolino, osservatore indiscreto di uomini e donne. Sarà il piglio dello psicologo, trasmessomi da uno dei miei insegnanti che per esercitare la capacità di osservazione ci portava al centro commerciale semplicemente per imparare a “vedere”.  Non le vetrine: le persone. 
Così mentre sorseggio mi viene in mente che il vedere è uno dei miei verbi preferiti, uno di quello più amati da coloro che hanno tramandato la buona notizia del mio Maestro. Si, perché se anche ho l’ardore e la sfrontatezza di insegnare a dei docenti, mi riconosco sempre e solo un discepolo, un discente, uno in movimento, mosso dal desiderio e dalla mancanza, nella costante ricerca delle tracce che lui, il mio Maestro, lascia ogni giorno camminando in quest’eterno presente, sperando - per tornare al verbo - che qualcuno le veda. Vedere. Lui vedeva la massa e la folla, vedeva la sofferenza, vedeva chi si adoperava a cercarlo con un piglio così testardo da salire perfino su un albero, vedeva degli uomini affaccendati nel loro lavoro di pescatori, vedeva dall’alto nell’ultimo momento i suoi affetti più cari. Vedeva: non si stancava mai di esercitare l’arte dello sguardo quasi a dirci che non esiste parola sensata che non sia preceduta da uno sguardo autentico. Vedeva: percepiva il bisogno di ogni umano di sottrarsi all’insignificanza, percependo sul proprio volto il posarsi di uno sguardo amico, pacifico, benevolo. Vedeva: scrutava il desiderio di ogni cuore, quel vuoto nato da uno sguardo mancato, da una parola d’amore non detta, da occhi poco attenti alla domanda. In fondo il problema dell’esistenza sta tutto qui: abbiamo il bisogno primario di essere visti, di sentire che esistiamo, che il nostro corpo è carne amata, che la nostra storia è osservata da qualcuno che non rende vano l’amore e il dolore, la fatica e l’impegno, la caduta e il rialzarsi. Abbiamo bisogno di sapere che in questo “sputo di universo” - per citare Vecchioni - qualcuno ci segue con amore, per sottrarre al vuoto definitivo il nostro esistere, per liberarci dal non sguardo della morte. Il mio Maestro - che nell’ultimo sguardo invoca con tenerezza il perdono - mi insegna che  basta uno sguardo d’amore a ridestare l’eterno e a sottrarci al caos.  Uno sguardo capace di raggiungere le sorgenti sconosciute della vita, il mistero più oscuro di questa materia che ci compone, uno sguardo che riconsegna all’essere eterno il nostro essere finito.   





In fondo, quando ero piccolo e come un recente film mi ha ricordato, anche io pensavo che quando non posavo lo sguardo su un oggetto questi smetteva di esistere e mi domandavo se fossi stato ancora vivo il giorno in cui nessuno più mi avesse visto. E mentre continuo a guardare la frenesia di queste persone, mentre i misteriosi percorsi del mio cervello mescolano immagini, parole e odori, il mio  bambino interiore pensa che forse la salvezza sta proprio qui, in uno sguardo amorevole e tenero che ci viene a cercare quando ogni altro sguardo viene a mancare. Così seguo il disordine frenetico di questa stazione, inquadro la fretta di tutto questo cammino, il continuo partire e tornare, come la ricerca spasmodica di uno sguardo primordiale e ultimo, lo sguardo della vita, della creazione, del Verbo.  E’ il desiderio di essere visti che ci muove, ci spinge, ci tormenta, tra armistizi e conflitti, tra mancamenti e ondate di piena, riconsegnandoci al destino ultimo della nostra esistenza: due occhi, due occhi di madre, due occhi di padre, due occhi d’amico, due occhi di amante, due occhi d’amore. Incrociarli su questa terra, anche per un solo attimo, significa incontrare l’eterno, oltrepassare la morte, compiere la Pasqua, contagiare d’amore la gente, smettere di vivere da morti e cominciare ad esistere da vivi.