domenica 30 aprile 2017

Sguardi capaci di riconoscere la vita. Libere riflessioni su Lc 24, 13-35

Gli occhi. Tutto parte da qui. Dallo sguardo. 
Sguardo attento o distratto, profondo o superficiale, amante o indifferente. 
Uno sguardo spesso appannato a causa delle mille lenti che il percorso di vita lascia frapporsi tra la mente, il cuore e la realtà,  
 
Cosa impediva ai due discepoli di riconoscere il volto amico di Gesù durante il loro cammino? E' un interrogativo ineliminabile. Cosa ci impedisce di riconoscere che c'è un volto, un amore capace di strapparci via dalla delusione di un grigiore quotidiano, di un desiderio senza risposta, di un'aspettativa disattesa. Cosa ci impedisce di provare a guardare la vita da un'ottica diversa e non da un giudizio continuo all'interno del quale poniamo ogni evento, riguardante noi o altri, in una scala che va dalla vittoria al fallimento. E in base a cosa, a quale criterio ci si può dire davvero vincenti? 
 
 
Gli amici diretti ad Emmaus avevano probabilmente un loro criterio, chiaro, preciso: Gesù doveva vincere attraverso il segno di un potere trionfante, di una vittoria schiacciante, di un dominio inequivocabile sui propri nemici. 
La logica di Gesù è invece profondamente diversa: vince chi si dona, trionfa chi perdona, il potere autentico, che rivela la vera grandezza di chi lo detiene, il suo essere "mahatma", "anima grande", è solo quello di condividere e condividersi. 
Questo è il lavoro che Gesù ha fatto con Cleopa e il suo amico in viaggio verso Emmaus, aiutandoli a passare dalla tristezza di un apparente fallimento all'incontro con la Vita presente in un pane spezzato e condiviso. Questo è il percorso interiore a cui lo Spirito del Risorto lavora, nella discrezione, perfino nella clandestinità, abitando nel cuore di ogni uomo e di ogni donna per far maturare la consapevolezza che solo l'amore salva, che solo l'amore è eterna fonte di vita, che solo una logica eucaristica, ben lontana da una ritualizzazione magica e commemorativa, può cambiare il mondo a partire dal cambiamento dello sguardo. Occhi non più appannati ma capaci di riconoscere. Occhi consapevoli, guariti, capaci di evitare quanto si afferma in un famoso film di Ozpetek"Che stupidi che siamo, quanti inviti respinti, quante parole non dette, quanti sguardi non ricambiati. Tante volte la vita ci passa accanto e noi non ce ne accorgiamo nemmeno". Guardiamoci dentro per imparare a guardare fuori. Per accorgerci, grazie all'amicizia con il Risorto, della vita che ci scoppia dentro, della vita che ci passa accanto. 

giovedì 27 aprile 2017

Classe a parte? Non si va lontano...

Per caso una notizia-invito via mail. Apre una nuova comunità. Una sorta di "casa famiglia". 
Utenti? Sacerdoti in difficoltà.  Iniziativa lodevole e bella, volta ad offrire aiuto e sostegno a persone che vivono uno percorso di vita particolare, un po' per la scelta di fare di un'appartenenza religiosa  il centro della loro vita, un po' per la vita celibataria che nella Chiesa cattolica latina è richiesta, un po' per il ruolo sociale e mediatico, che tra aspettative e domande pressanti, gioca anch'esso un ruolo non indifferente in termini di stress individuale e sociale.
Eppure qualcosa non mi convince. 
Quando si parla di preti sembra che occorra un' ulteriore specializzazione. Strutture specializzate. Psicologi specializzati. Counselor specifici. Strutture adeguate. Per carità: ogni percorso va individualizzato, analizzato e compreso all'interno della propria esperienza, spirituale e culturale, di appartenenza e di valori. Anche di scelte specifiche e peculiari come quella di una consacrazione religiosa. 

 

Tuttavia ciò che non  mi torna del tutto è che, anche nella dimensione umana che condividono con il resto dell'umanità, i consacrati e i presbiteri debbano un pó essere trattati come "porzione a parte", "campo diviso". Proprio come l'etimologia del termine "clero" sta a indicare. Eppure, in un tempo di eccessiva specializzazione scientifica, occorrerebbero focus più grandi e comprensivi sulla vita della gente, anche se questa indossa l'abito talare.  Tra l'altro, credo che uno dei problemi di cui ancora non si vuol prendere piena consapevolezza è proprio quello dell'umanità del religioso,  che non si differenzia in nulla da quella di ogni essere umano: stessi meccanismi, stessi conflitti, stesse pulsioni, stessi bisogni, stesso mistero irriducibile. Quest'umanità, laddove presentasse momenti di crisi (non esistono crisi spirituali e crisi umane, crisi sacerdotali e crisi vocazionali...le crisi sono crisi e basta, riguardano l'individuo per intero!) andrebbe accolta e trattata in quanto tale: l'esperienza di molti, al di là della dottrina, ci dice proprio che la grazia di un sacramento o di una consacrazione certamente non si esprime come forza magica in grado di potenziare o sanare in automatico dimensioni affettive o cognitive sofferenti e/o deficitarie che avrebbero bisogno di ben altri percorsi. 
Non esistono sacerdoti in difficoltà: esistono persone che vivono momenti di faticosa crisi. 
Non esistono suore in crisi: esistono donne che affrontano le ferite e le sofferenze della loro vita. Trattare i loro percorsi a partire dal colletto che indossano o il velo con il quale coprono il capo è a mio avviso la premessa certa di un percorso almeno in parte deficitario. Una via più normalizzante e meno esclusiva potrebbe essere invece il primo passo per insegnare ad accogliersi e ad accogliere anzitutto a partire dalla propria umanità, dove terra e cielo si mescolano sempre e in tutti, fino a divenire inseparabili. 
La mia è solo un'opinione. Un "in bocca al lupo" sincero e disinteressato a quanti, tra amici presbiteri e colleghi psicologi,  decidono invece di seguire strade diverse. 

domenica 23 aprile 2017

Sta in mezzo. Libere riflessioni su Gv 20, 19-31.

Sta in mezzo. Al centro. Della vita, dei dolori, delle gioie, dei desideri, delle attese, dei fallimenti e dei successi. Al centro di ogni cosa. 
Sta in mezzo anche quando le porte sono chiuse, gli occhi incapaci di riconoscerlo, i cuori assenti e distratti dalla vita che si vive. 
Non lo si può tenere fuori e non si può prentendere di metterlo in una nicchia, in uno spazio più o meno sacro, in un compartimento preciso e specializzato. 
Il Risorto sta sempre in mezzo, al centro, dentro. Distante e vicino a tutti allo stesso modo: non c'è clero che possa garantirsi una vicinanza privilegiata, non c'è categoria peccatrice che possa dirsi più lontana rispetto ad altri.  E' in mezzo, come in quei gruppi scout in cui ti insegnano che è importante stare in cerchio perchè ognuno è uguale all'altro e tutti distano allo stesso modo dal centro.  Tutti vicini a lui, allo stessa maniera  anche se con sapori e consapevolezze diverse. Come diversa è ogni storia, ogni percorso. Mai catalogabile: il suo è un approccio idiografico in cui l'initimità, fatta di amore e conoscenza, supera barriere e giudizi, norme rigide e considerazioni superficiali.Lui conosce tutti e per tutti dà la vita, facendo delle proprie ferite la firma di un amore gratuito, dono per tutti, da accogliere e mai da conquistare. 
 
È al centro, dentro, in mezzo,  per soffiare Amore e dare alle nostre giornate il sapore della continua rigenerazione, della creazione di vita che nasce da cuori disposti a donare e perdonare. Amore  che dona amore. Ma senza prove. Perchè l'amore non si tocca, si respira. Non si vede, si sente. Non si cattura, si libera. E per credere all'amore devi essere stato toccato almeno una volta nella vita dalla sua bellezza e devi aver deciso, almeno in piccola parta, di donarlo a tua volta. È grazie a  questo tocco, grazie a questa decisione, che ti aiuta a  rientrare dalla  distrazione perenne di una vita vissuta all'esterno di se stessi, che puoi guardarti dentro e poi guardarti attorno, dove la tua vita si gioca ogni giorno. Per riconoscere tra le trame di questo gioco rischioso e bellissimo la Presenza di un Amore folle, che ti invita a sperare. Ed è quando ti fidi di quest'Amore che riconosci nel suo profumo la presenza discreta di Colui di cui sappiamo meno di quanto crediamo e più di quanto ci serve. Sappiamo che è Amore. Fatto carne. Fatto vita. Più forte della morte. Di ogni morte. Signore e Dio. Mio e tuo. Di tutti, proprio di tutti. Nessuno escluso. 

mercoledì 19 aprile 2017

Una tavola per due


Ieri, io e un amico, mangiavamo un piatto di riso e chiedendogli della trascorsa giornata di Pasquetta mi dice: a casa, senza figli, anche il più piccolo era uscito, una bellissima giornata, tavola imbandita per due e ottimo pranzo. Tutto questo me lo ha raccontato con gli occhi lucidi ma impegnati con sforzo a trattenere una debolezza che non si consente un uomo di una certa età. Il fatto è che a quella tavola pasquale apparecchiata per due vi era solo lui. La moglie ha terminato il suo percorso su questa terra da ormai più di due anni. Mi ha estremamente colpito questa attenzione delicata, questo desiderio infantilmente adulto di voler mantenere un legame, una comunione di vita anche quando la presenza dell'altro appartiene al mondo della fede, dell'invisibile, dell'immaginazione, dell'intuizione. 
 
 
"L'assenza è presenza", afferma Sorrentino nella sua serie di successo, e lo è tanto più quando si tratta dell'assenza dell'amato, dell'amata. Chi ama vive in un eterno presente dove ciò e chi è assente ritorna in mille modi, impossibile da eliminare, da cancellare. E non si tratta semplicemente di romantici ricordi ma di una presenza viva e misteriosa dentro il proprio cuore e all'interno della propria mente. Una presenza fatta di una memoria che non si accontenta di ricordare ma che proietta il proprio desiderio in ogni istante della vita, narrando una dimensione sconosciuta, al di là del tempo e dello spazio, della logica e della razionalità. La dimensione dell'amore...una dimensione  psichica e spirituale, trascendente e irrazionale attraversata da un'unica logica forte e potente: l'amato non muore ma muore chi non ama. 

sabato 15 aprile 2017

È Pasqua

Nessun sacrificio ad un Dio assetato di sangue. Nessuna rinuncia alla propria vita a favore di una giustizia superiore che avrebbe più i contorni di un'immane ingiustizia che quelli di un luogo di amore. La croce di Gesù di Nazareth non è stata l'altare in cui la vita innocente è stata offerta al sadismo divino ma la grande cattedra che Egli stesso, uomo fatto di Cielo, ha donato agli uomini. Una cattedra in cui si insegna che l'amore è un rischio che va vissuto, fino alle estreme conseguenze. In cui si comunica la bellezza e la drammaticità dello schierarsi dalla parte di chi soffre, senza giudicare, senza escludere, beneficando tutti, proprio tutti, perfino gli aguzzini per i quali si implora il più grande dei doni: il perdono.

 

È Pasqua quando abbiamo il coraggio di sederci tra i banchi umili del falegname di Nazaret, in cui ci è offerto gratuitamente il corso di recupero per la più importante delle materie: l'amore. 
È Pasqua quando scegliamo di non stare a guardare il mondo dalla finestra ma di tradurre in pratica ciò che abbiamo appreso, rinunciando ai narcisismi infantili di un culto rassicurante e magico per camminare con chi soffre, per spezzare il pane della Presenza da cui nasce il desiderio di porsi a servizio del bene, lottando per una terra che assomigli sempre più ad un regno di giustizia e di pace. 
È Pasqua quando decidiamo di uscire fuori da una logica perversa che divide il mondo in buoni e cattivi per recuperare la nostra bellezza originaria, quella che il Cristo aveva stampata nel cuore quando ci ha insegnato l'amore, tra le strade della Palestina come sul  luogo del Golgota, aiutandoci a non guardare sempre al peccato, proprio e altrui, (logica dell'apocalittico accusatore più che del creatore amico della vita) e a consegnarci fiduciosi ad un Padre che sempre perdona, accoglie, salva, senza bisogno di espiazione e implorazione previa. 
È Pasqua quando abbiamo il coraggio di abbracciare la nostra libertà, con il suo carico di contraddizioni e incoerenze, rischi e fatiche, gioie e successi per metterla al servizio di un giardino più grande del nostro orticello. Il giardino nuovo. Dove un sepolcro vuoto canta la più grande e incomprensibile  delle teosofie, quella di una vita che non conosce fine, che può rendere divina l'esistenza di ogni uomo, una vita condivisa e donata che ci salva dalle morti quotidiane dell'egoismo e della sofferenza, per ricordarci che non esiste morte per chi custodisce nel proprio cuore, al di là delle parole, delle dottrine, delle appartenenze, delle fragilità,  il seme delicato e potente dell'Amore vero. 

Buona Pasqua a tutti! 
State allegri!

lunedì 10 aprile 2017

Caro Adriano!

Caro Adriano,

Ieri per telefono mi hai raccontato la tua prima confessione, il momento nel quale, per la prima volta, hai vissuto la difficoltà a dire e pensare il male che avevi commesso, la preoccupazione di non sapere bene l'atto di dolore che ti avevano chiesto di imparare, la paura giocosa di chi teme di essere giudicato per un terribile "porca Eva" pronunciato dalla tua bocca di bambino. 
Vedi, il peccato è una cosa seria, molto seria. E non è una semplice e banale multa nella quale incappiamo per aver messo l'auto in doppia fila. Il peccato non è il dire di no ad un comandamento, ad una legge o prescrizione umana. 
Il peccato è dire no all'amore. È decidere, consapevolmente, di non amare. Pecchi quando scegli di non amare te stesso, di non custodire la tua vita, come ad esempio quando fai un uso sbagliato di alcol o fumo, o quando non decidi di lavorare sul tuo cuore per sentirti meglio in un periodo buio. Peccato è quando scegli di non amare gli altri: chiudendo loro il tuo cuore, non aiutando chi è in difficoltà, pensando unicamente a te stesso, non lottando per un mondo migliore. Insomma quando devi domandarti che peccato hai fatto, domandati: quando non ho amato? 
 A proposito, dimenticavo Dio. Ch buffo.  Ma non era quello che dovevamo amare per primo? Si. Esattamente. Ma il punto è che se ami te stesso e ami gli altri hai amato perfettamente anche Dio. Lui infatti non abita oltre le nuvole ma nel tuo cuore, nel cuore di chi ti è accanto, nel cuore dei poveri e dei sofferenti, nel cuore del creato, in un pezzo di pane, l'Eucarestia, che diventa presenza di condivisione e semplicità di dono autentico. Guarda che trucco ha inventato: per farci amare gli uni gli altri, per farci amare questo mondo, si è nascosto dentro ognuno di noi e in un pezzo di pane. Abita in ognuno di noi, abita il mondo anche se nello stesso tempo è più grande di noi e del mondo. Abita nel pane affinché anche noi diventiamo pane, gente che condivide vita, tempo, cuore. Nella sua fantasia di amore ha scelto così. 
 

Vedrai che tenendo a mente tutto questo modo sarà più facile confessarti e forse anche più serio. Ma dimenticavo una cosa importante: questo Dio di immenso amore, questo Padre buono di cui Gesù ci ha parlato con la sua vita, non è un giudice spietato e non manda mai castighi e punizioni per i peccati commessi ma sempre ci rende la mano per tirarci su dal pozzo profondo del non amore e insegnarci ad amare. E se anche qualche prete o catechista ti fa imparare l'antico  atto di dolore, tu da ometto coraggioso, rifiuta quella fatidica frase "ho meritato i tuoi castighi". È la bestemmia più grande per un Padre tenero e buono come Dio. Lui non ti castigherà mai. Ricordalo. Ma sempre sarà dalla tua parte per insegnarti ad amare. Perché solo nell'amore c'è il segreto della vita eterna, forte, indistruttibile. Quella che non termina mai, neanche con la morte.
 Buona Pasqua caro Adriano!

sabato 8 aprile 2017

Lingue da discepoli, orecchi attenti, cuori capaci di amore.

"Una lingua da discepolo...un orecchio attento". Così inizia il deutero Isaia il Terzo (Is 50,4) canto del Servo del Signore, terza poesia mistica di quattro poemi che cantano di un personaggio misterioso, un uomo o un popolo fedele a Dio che avrebbe avuto un ruolo decisivo per la storia di Israele e dell'umanità intera. La tradizione cristiana ha voluto scorgere in queste righe così dense di immagini artistiche e misteriose il volto di Gesù, la sua pacifica volontà di condividere con gli uomini un progetto di amore che gli sarebbe costato addirittura la vita. "Una lingua da discepolo....un orecchio attento". Ecco come inizia la liturgia della Parola di questa domenica, profumata di ulivo, colorata di sangue. E non solo per i colori liturgici che rimandano al sangue innocente di Gesù ma perché immagini, minacce e fantasmi di morte addensano ancora una volta gli schermi piatti dei nostri smartphone e delle nostre televisioni. Pensando alla giornata di ieri, mi incuriosisce il fatto che subito dopo un attentato, un attacco, un bombardamento escono fuori come talpe esperti, scienziati, specialisti e conoscitori della storia pronti a fare previsioni esatte e a svelare inedite motivazioni che porteranno allo scenario previsto. Ciò che  mi colpisce è la freddezza, il distacco ma soprattutto la sicurezza saccente di chi sa il perché, il come e il quando dell'evolversi della storia dei popoli e delle scelte degli individui. Gente che crede di sapere tutto. 

Io invece mi accorgo di non capire nulla e di non sapere niente. E mi sforzo di tacere quando non so, di proferire dati di cui sono almeno un pò certo e soprattutto di essere attento a quello che mi accade dentro e intorno per imparare ad essere migliore. Per essere solidale all'umanità che mi abita e che abita gli umani come me. E scopro che questo è stato l'atteggiamento del Maestro itinerante di Nazareth: la sua è stata una lingua da discepolo, un orecchio attento (Gv, 15, 15). Non ha mai mostrato la saccenza di chi conosce ogni cosa ma si è sempre messo in ascolto della vita degli uomini, sapendo che in quella vita una mente aperta e un cuore libero avrebbero saputo rintracciare la voce dell'Amore sorgivo e creatore, le tracce benevole e tenere del Padre. Ha guarito, sanato, beneficato, rimesso in piedi, incluso, perdonato, amato


Gesù, figlio di Dio, figlio dell'Uomo ha deciso di ascoltare sempre l'Amore, divenendone non il possessore unico ma il discepolo perfetto, condividendo l'Amore  che riceveva ogni giorno dal Padre, un Amore che non custodì per se con gelosia (Fil 2, 6) ma che imparò a condividere con tutti, nessuno escluso. Il dono della sua vita è il segno più alto di questa condivisione di amore che ha imparato dal Padre. E forse la forma più grande di conoscenza che un essere umano potesse avere degli altri essere umani. Perché in fondo conosce solo chi ama e mai l'amore è disgiunto dalla conoscenza.

Insomma, credo che anche in questi giorni di sangue abbiamo bisogno di gente che rinunci a credersi Dio, che impari l'umiltà del discepolato, mettendosi in ascolto della vita, comprendendo che guerra, violenza, crisi economiche e di altro tipo non nascono come i cavoli, né vengono da marte ma hanno la loro genesi nel cuore dell'uomo. Un cuore malato e senza amore. Nessun esperto, giornalista o politico, plurilaureato o stratega  guarirà mai questo cuore con la sola sua scienza. 

Per guarire il cuore dell'uomo bisogna conoscerlo e per conoscerlo bisogna amarloE la prova dell'amore è la capacità di donare la vita. Questo mondo avrà futuro se ci sarà gente dall'orecchio attento, dalla lingua umile e dal cuore amante. 
Gente capace di dono vero.  Come Gesù. 

giovedì 6 aprile 2017

Il pensiero, le emozioni, i bambini siriani.

Tutto ha la durata di un click. Di un like o di una condivisione. Le emozioni corrono e corrono e scorrono lacrime che diventano risate impazzite al video successivo. In fondo è il tempo del l'intelligenza emotiva. Solo emotiva. Goleman docet.  Perché il pensare, il riflettere, il sostare che pure sono caratteristiche essenziali dell' "intelligere" sembrano passati di moda ed essere diventati caparra di qualche intellettuale reazionario o pesantone di turno. Non per nulla Gabbani canta che l'intelligenza è demodè. 
Ma un'indignazione che dura un secondo può dirsi indignazione? E il dolore che cede il passo a mille commenti sulla partita di calcio può dirsi davvero dolore? Mi si dirà che sono pesante, che non possiamo piangerci addosso, che la vita continua e certamente non si può far nulla per salvare la vita di bambini e uomini nati nel momento sbagliato al posto sbagliato. Questa teoria non mi convince. Mi sembra poco umano il fatto che l'umano non possa sempre decidersi per il bene e che dalla sua decisione non dipenda il livello di bene nel mondo. Per carità, nessuno può salvare nessuno ma ciascuno può darsi da fare affinché il bene aumenti e produca pace e benessere per se e per chi ha intorno. Chi ci proporrà una fede che è azione nel tempo delle emozioni? Quale politico, filosofo, religioso? Chi inviterà ad uscire fuori dal tempio laicista o sacro che sia per cercare di salvare il volto dell'uomo nel quale qualcuno, io mi reputo tra questi, scorge il volto di Dio? Quale partito, religione, psicologia, filosofia ci aiuterà in questo?  I discepoli di Cristo, che pure hanno come nuovo comando quello dell'amore, sembrano essersi immersi nella stessa logica emotiva di tutti ed è facile trovare movimenti che più che lavorare per il bene integrale (che ha a che fare con il mondo di lassù che però comincia decisamente quaggiù) preferiscono raccontarsi tante belle storielle farcite di musica emotiva per avere un pó di pace sensoriale dai dolori di sempre: una preghiera che non ha obiettivi più vasti di una seduta di yoga occidentale. 
Ieri incontrando una scuola in visita al nostro Centro, un giovane diciassettene mi domandava: cosa posso fare io se il mondo è governato dal mercato? Gli ho risposto, forse infelicemente: puoi iniziare a pensare e a fare in modo che nessuno ti rubi il pensiero e il pensiero autentico conduce sempre al bene, al bello. E allora li dovrai avere coraggio e tramutare il tuo pensiero in bene e bellezza, decidendoti per la condivisione e la solidarietà, per la giustizia e per la pace. Ma ricorda tutto nasce dal pensiero. Anche un dolore vero per un bambino siriano (vero, non virtuale). 

domenica 2 aprile 2017

Riflessione su Gv 11, 1-45

Io sono la vita. Da vivere ora. Una vita sempre presente, sempre disponibile, una vita  che diventa eterna nella misura in si accoglie l'Amore e si rimane nell'Amore sorgivo da cui proviene ogni amore. 
Siamo noi Lazzaro: chiusi nei sepolcri delle nostre paure, ricoperti dalle bende delle nostre ferite, maleodoranti dell'egoismo e della tristezza grigia di chi si crede il centro del mondo. 
Siamo noi Marta: bisognosi di risposte dinanzi ad un apparente non senso, dinanzi ad una vita che da onnipotente diviene nulla ogni qualvolta sperimentiamo la debolezza delle piccole e a volte costanti morti quotidiane, e la potenza di quella morte biologica che è porta attraverso cui tutti dovremmo passare. 
Siamo noi Maria: presenze che invocano una compagnia che salvi e metta al riparo..."se tu fossi stato qui!". 
A tutti noi Gesù risponde con l'invito ad una fiducia forte, capace di sfidare la tenebra del dolore: io sono la vita, la risurrezione, chi vive e crede in me non morirà. Gesù non rimanda la soluzione di tutto al futuro, a quell'ultimo giorno in cui tutti credono ma che non sazia la sete di risposte. Gesù spalanca piuttosto la dimensione del presente ponendo due condizioni capace di eternizzare l'uomo di ogni luogo e di ogni tempo. Vivere e credere oggi in Lui, dare oggi fiducia a quell'invito all'amore che lui stesso  ha vissuto, insegnato e proposto come rimedio alle morti del cuore e anche a quella morte eterna che ci fa paura. Chi vive e crede in lui ama. E chi ama non muore. Perché l'amore, solo l'amore rende eterni. E spalanca dimensioni invisibili agli occhi ma forti e potenti come il vento, inafferrabile, invisibile ma capace di spingere la vita oltre ogni oltre.
Allora vivi l'amore, credi nell'Amore, ama l'Amore. Unico segreto per non morire ogni giorno, a piccole dosi, unica scelta sensata per vivere da eterni già oggi. 

sabato 1 aprile 2017

Ombre e cura dell'anima

I collegamenti nascono spontanei. Come le libere associazioni della psicanalisi. E hanno sempre un senso: qual è il comune denominatore che mette sotto lo stesso tetto un articolo in cui si parla di "bambini DOP" e una cronaca che racconta di giovani omicidi resi tali da un "raptus di follia"? Cosa tiene in coppia la "pazzia del branco" e un disturbo antisociale di un trentenne? Credo che la risposta risieda nella costante tentazione di ignorare una profonda verità: siamo pozzi di luce e di ombra e la tenebra della fragilità e ci abita perennemente, a prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo. Il mondo si divide in chi accetta questa realtà, imparando ad affrontarla, gestirla, a volte risolverla e chi finge che non esista, per poi battersi ogni giorno con le sue conseguenze. In un tempo in cui l'iperspecializzazione delle discipline e la fiducia nella tecnica ispirano proiezioni ottimistiche pronte a sciogliersi come le ali di Icaro ci giriamo continuamente dall'altra parte, pur di non vedere la fragilità accanto e dentro di noi. E chi rinnega la fragilità dimentica la cura della propria e altrui ombra, preparando un eruzione la cui tipologia non è prevedibile. Chi ignora la dinamica dell'ombra ignora il pericolo. Chi ignora il pericolo tralascianla cura. Chi ignora ombra, pericolo e cura ha bisogno di un'etichetta capace di dare un senso alla fragilità, relegandola in un angolo della società che non tocca il mondo dei "normali". Ecco che non esiste disagio, dolore e ombra ma malattie, disturbi, raptus di follia. Ma attenzione: tutti siamo potenziali omicidi, tutti possibili disturbati. E non basteranno etichette psichiatriche e diagnosi cognitivo-comportamentali per risolvere la questione. Nonno Freud su questo non ha mentito: è ciò che nom sappiamo di noi che spesso ci guida e non guardare quest'ombra è il più grande pericolo per l'uomo di ogni tempo e di ogni luogo.