giovedì 27 aprile 2017

Classe a parte? Non si va lontano...

Per caso una notizia-invito via mail. Apre una nuova comunità. Una sorta di "casa famiglia". 
Utenti? Sacerdoti in difficoltà.  Iniziativa lodevole e bella, volta ad offrire aiuto e sostegno a persone che vivono uno percorso di vita particolare, un po' per la scelta di fare di un'appartenenza religiosa  il centro della loro vita, un po' per la vita celibataria che nella Chiesa cattolica latina è richiesta, un po' per il ruolo sociale e mediatico, che tra aspettative e domande pressanti, gioca anch'esso un ruolo non indifferente in termini di stress individuale e sociale.
Eppure qualcosa non mi convince. 
Quando si parla di preti sembra che occorra un' ulteriore specializzazione. Strutture specializzate. Psicologi specializzati. Counselor specifici. Strutture adeguate. Per carità: ogni percorso va individualizzato, analizzato e compreso all'interno della propria esperienza, spirituale e culturale, di appartenenza e di valori. Anche di scelte specifiche e peculiari come quella di una consacrazione religiosa. 

 

Tuttavia ciò che non  mi torna del tutto è che, anche nella dimensione umana che condividono con il resto dell'umanità, i consacrati e i presbiteri debbano un pó essere trattati come "porzione a parte", "campo diviso". Proprio come l'etimologia del termine "clero" sta a indicare. Eppure, in un tempo di eccessiva specializzazione scientifica, occorrerebbero focus più grandi e comprensivi sulla vita della gente, anche se questa indossa l'abito talare.  Tra l'altro, credo che uno dei problemi di cui ancora non si vuol prendere piena consapevolezza è proprio quello dell'umanità del religioso,  che non si differenzia in nulla da quella di ogni essere umano: stessi meccanismi, stessi conflitti, stesse pulsioni, stessi bisogni, stesso mistero irriducibile. Quest'umanità, laddove presentasse momenti di crisi (non esistono crisi spirituali e crisi umane, crisi sacerdotali e crisi vocazionali...le crisi sono crisi e basta, riguardano l'individuo per intero!) andrebbe accolta e trattata in quanto tale: l'esperienza di molti, al di là della dottrina, ci dice proprio che la grazia di un sacramento o di una consacrazione certamente non si esprime come forza magica in grado di potenziare o sanare in automatico dimensioni affettive o cognitive sofferenti e/o deficitarie che avrebbero bisogno di ben altri percorsi. 
Non esistono sacerdoti in difficoltà: esistono persone che vivono momenti di faticosa crisi. 
Non esistono suore in crisi: esistono donne che affrontano le ferite e le sofferenze della loro vita. Trattare i loro percorsi a partire dal colletto che indossano o il velo con il quale coprono il capo è a mio avviso la premessa certa di un percorso almeno in parte deficitario. Una via più normalizzante e meno esclusiva potrebbe essere invece il primo passo per insegnare ad accogliersi e ad accogliere anzitutto a partire dalla propria umanità, dove terra e cielo si mescolano sempre e in tutti, fino a divenire inseparabili. 
La mia è solo un'opinione. Un "in bocca al lupo" sincero e disinteressato a quanti, tra amici presbiteri e colleghi psicologi,  decidono invece di seguire strade diverse. 

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