sabato 30 dicembre 2017

Buon presente, buona vita!

Panta rei. Tutto scorre, ci dice Eraclito. Tutto, proprio tutto. E questo lo sappiamo tutti perché proprio tutti lo sperimentiamo ogni giorno nelle corse frenetiche del lavoro, negli affannosi tentativi di fermare il tempo in qualche istante felice, nell’attesa continua di quel qualcuno o di quel  qualcosa che non arriva mai.
Il tempo, come tutto, scorre. Certo. Quasi ovvio. Ma la vera questione non è il suo costante e irrefrenabile cammino ma la sua meta, il suo porto, le sue foci. Dove ci porterà questo tempo? A quale incontro dirige? Verso quale fine orienta? Ogni anniversario, ogni compleanno, ogni capodanno vissuto nel tentativo  di dimenticare questa domanda, inevitabilmente finisce per divenire uno psicodramma disperato, dove si fa finta di essere felici e allegri pur con il vuoto nel cuore. Si lo so, può sembrare la solita pippa esistenziale che  pone il “pesantone” di turno. Ma a pesare è la vita, così com è. E diviene leggera solo quando si risponde con coraggio a domande pesanti, come quelle qui poste. 




Io non so se ho trovato la giusta risposta: mi sento ancora cercatore, esploratore delle risposte vitali, mendicante di semplici certezze. E spesso mi capita, come in questi giorni, di ricevere ciò che mendico non da sapienti cattedre ma da voci - secondo gli uomini - marginali e periferiche, come quelle di Celin e Victor, diciottenni migranti nigeriani,  innamorati follemente e in attesa di incontrare la loro bimba, in arrivo tra poco più di un mese e accolti presso la comunità che dirigo. Ieri eravamo in gita, sui monti dell’alta Lucania. E, dono inaspettato, incontriamo la neve. Cosa mai vista, regalo de cielo. Domando a Celin se è contenta. La sua risposta mi smarca: si, sono contenta, sono davvero felice, è bellissimo, oggi ho chi mi vuol bene, oggi ho una famiglia, oggi ho Dio che mi regala questa neve. 
Cosa ha da essere felice questa giovane ragazza che mette al mondo il proprio figlio tra mille incertezze, nella povertà e nell’incognita burocratica della permanenza in Italia? Cosa ha da essere felice lei che ha visto la morte in faccia? Che ha conosciuto la tortura e il male? Se fossi al posto suo sarei molto più pesante di quanto sono. Ma lei no, con il suo pancione enorme è leggera. Perché? Perché non vive nel passato, non vive nel futuro ma il suo sentire è radicato spontaneamente nell’oggi, nel presente. Gran parte dei nostri problemi sparirebbero se avessimo quest’arte: il tempo di ieri può generare rabbia e malinconia, quello di domani ci offre ansia e timore. L’oggi è l’unica realtà vera, capace di aprire spazi di vita autentica: spazi di amore.  Ecco, qui sta il segreto. Nell’oggi. Il mio Maestro lo ripeteva con forza ai suoi amici: non affannatevi per il domani. È solo quando ci si radica al di fuori di quest’affanno, è solo quando si chiudono le porte in faccia al rimpianto che ha senso festeggiare il tempo. Il resto è parodia disperata della felicità. Ma io e Celin e tanti amici con i quali condivido il cammino  siamo apprendisti della felicità, a noi non è data la possibilità di accontentarci di allegrie distratte e di qualche immagine su istagram con le quali ci vogliamo autoconvincere di essere fighi, belli e felici e santi. Noi siamo assetati di felicitá, siamo innamorati dell’amore. E l’amore ha un solo tempo verbale: il presente. Buon 2018? No, grazie. Buon presente, buon oggi. Buona vita! 

domenica 29 ottobre 2017

VOGLIA DI DIAGNOSI. La moda (redditizia) dei disturbi e delle sindromi.

Non è colpa dei bambini. Questo il titolo è il succo del nuovo libro di Daniele Novara. Lo consiglio caldamente a chiunque sia impegnato nel settore dell'educazione e della psicologia dell'età evolutiva: genitori e insegnanti, pedagogisti e psicologi, neuropsichiatri e pediatri. 
Ha dato voce autorevole e dati statistici a diversi pensieri, sensazioni, opinioni che hanno affollato la mia mente in diverse circostanze, dalla pratica clinica a quella della consulenza psicopedagogica rivolta a genitori in difficoltà.

Mi sembra particolarmente importante, nel libro di Novara, la sua denuncia dell'eccessiva patologizzazione dei bambini, con un ricorso spropositato da parte di genitori e insegnanti  a neuropsichiatri e studi diagnostici. 

Leggendo i dati nazionali, difficilmente non si può far proprio il dubbio e l'interrogativo che pone il noto pedagogista piacentino: "Siamo in presenza di una generazione scompensata dal punto di vista mentale, con disturbi neurologici e psichiatrici così gravi che comporteranno conseguenze altrettanto significative nell'età adulta? Dobbiamo preoccuparci del nostro futuro? Oppure questa esplosione di diagnosi e certificazioni è (solo) un segno inquietante dei nostri tempi?" (p.65).




Nel mondo adulto vi è un desiderio di etichettare che rischia, per effetto pigmalione, di creare patologia in presenza di normali percorsi , blocchi evolutivi laddove ci si trova solo in situazioni di crescita e sviluppo peculiari e differenti:

"Il sistema degli screening e delle certificazioni produce un business indotto di dimensioni significative. L'aumento incredibile di diagnosi e certificazioni ha visto crescere di pari passo in modo esponenziale il numero dei servizi privati dedicati alla diagnostica, al potenziamento e al recupero della difficoltà. Sull'ansia e la preoccupazione dei genitori di fronte ai risultati dei  documenti sanitari, spesso di difficile lettura, sono proliferati centri e materiali di ogni tipo (...). Spesso inoltre gli strumenti utilizzati in fase di diagnosi e certificazione si basano su procedure e materiali che hanno una storia piuttosto recente e che richiederebbero di essere adoperati con una maggiore prudenza" (pp. 100-101).

Il desiderio di diagnosi da parte di adulti, genitori e insegnanti che siano, non di rado nasconde il bisogno di deresponsabilizzarsi rispetto a problematiche che prima di ogni altra terapia, medica o psichiatrica, richiederebbero di essere trattate attraverso una sana pedagogia e una corretta prassi educativa.

Per questo Daniele Novara punta direttamente ad indicare nei genitori e negli insegnanti (famiglia e scuola) i veri sistemi su cui intervenire in ambito formativo e pedagogico: è in questi contesti che i cervelli "plastici" dei nostri ragazzi si modificano evolvendosi o a volte bloccandosi a causa di condizionamenti avvertiti come traumatici e squalificanti.

Spero in un presente dove psicologi, pedagogisti e neuropsichiatri si mettano seriamente a lavorare sui contesti educativi, familiari e scolastici, negli ambienti quotidiani in cui bambini e ragazzi vivono e crescono, non medicalizzando ad oltranza, ma accogliendo piuttosto la sfida di cooperare insieme al benessere della persona, senza cavalcare falsi problemi, intervenendo con diagnosi e categorie solo dove realmente necessario, risparmiando a molti l'onta di un etichettamento fasullo. Lavorare così sarà meno redditizio ma più utile e, soprattutto, più etico. 

domenica 22 ottobre 2017

Portami via, dove il sole non piange: ogni giorno, almeno due bambini, urlano nel silenzio.

"In Italia quasi mille minori ogni anno sono vittime di abusi sessuali: circa 2 bambini ogni giorno. Ma lo scorso anno si è registrato un vero record: 5.383 minori vittima di violenza, non solo sessuale; si tratta di circa 15 bambini ogni giorno. In sei casi su 10 si tratta di bambine": questi i dati pubblicati dal Dossier della Campagna "Indifesa" di Terre des Hommes, associazione internazionale attiva nel campo della tutela e dell'aiuto ai minori. 

Si tratta di dati orribili, da togliere il sonno. Dati che svelano un mondo inquietante, che hanno il sapore di un male indicibile, la nebulosità di un'aria grigia che penetra dovunque: nei contesti familiari (sempre in testa alla classifica), come in quelli amicali, nelle scuole, nelle palestre, nelle chiese. In tutti i contesti umani. Qualsiasi luogo e ambiente può diventare il set cinematografico di questa orribile commedia fatta di verità. Una verità che spesso non si vuol vedere, non si vuol sentire, non si vuol toccare. Una verità che fa paura perché affermare che circa due bambini al giorno sono vittime di abuso sessuale significa dire anche che ogni giorno due adulti, in Italia, commettono quest'atrocità. E non sono dei mostri. 

Questo è l'altro dato che spaventa. Parlare di bambine e bambini abusati, significa parlare di uomini e donne abusanti. Di adulti, uomini e donne, di persone normali. Il vocabolario Treccani definisce il mostro come una "persona brutta e deforme, il cui aspetto incute un senso di orrore e repulsione". No. Qui si tratta di persone comuni: il buon padre di famiglia, tutto lavoro e sacrificio. La buona mamma omertosa o il bell'istruttore della palestra sotto casa. O il maestro modello, o la bidella gentile. Oppure il pretino perfetto o guru carismatico di qualsiasi fede e religione. 

Non sono dei mostri. Sono persone normali. Dalle apparenze normali. Dal funzionamento normale. Ma che dentro hanno delle parti malate. Profondamente. Inesorabilmente. Parti pericolose, provenienti da mondi caotici, da cortocircuiti cognitivi folli, da scissioni radicate oltre il visibile. Se non si inizia ad uscire dal linguaggio giornalistico del "mostro" non si sarà mai capaci di scovarli ed essere attenti anche ai piccoli segnali che lasciano sulle loro vittime. 




Solo Dio sa quanto male possono compiere questi uomini e queste donne quando la loro parte malata prende il sopravvento, quando il loro male radicale non viene affrontato, combattuto, prevenuto, isolato, gestito. 

Sono portatori sani di morte. Quella morte che entra poco a poco, come un siero potente, tra i confini violati delle loro vittime, sotto la pelle di bambini e bambine che tutti i giorni della loro vita, per tutte le ore e i secondi del loro cammino faranno i conti con una parte di sé morta, agonizzante, immobilizzata dalla paura, bloccata dalla roccia del trauma.

Il trauma: che sia grande e solido racchiuso in un unico eventi, o fatto di piccoli assaggi quotidiani, conta poco. Il suo sapore resta nel palato di chi lo ha assaggiato. 

Ancora troppo poco ciò che  le istituzioni di ogni grado e livello fanno. E forse troppo pochi i professionisti competenti e preparati per porre in essere strategie preventive, osservatori capillari dei più piccoli segnali di disagio, percorsi di recupero seri per persone ferite.

Una poesia di Arturo Rembi recita così:

Siamo incroci
di carni ferite,
sguardi di neonati incoscienti,
bocche che assaporano 
piaceri conditi di colpe
che mai nessun giudice potrà assolvere.
Ma qui ci sono io.
Ti porterò fuori.
Dove il sole non piange.
Dove le nuvole sorridono
lasciando piovere 
bambini di cioccolata.


Un bambino vittima di abuso o maltrattamento è il cancro di ogni sistema sociale. L'unica cura da augurargli è quella di poter trovare qualcuno disposto a "portarlo fuori" dal suo male di vivere, fuori dove "il sole non piange" e dove l'essere al mondo diventa non più una condanna ma un piacere genuino, come la cioccolata. Compito della società civile, delle istituzioni, dei professionisti delle scienze umane è essere quel qualcuno. 

domenica 15 ottobre 2017

Omosessualità: tra attese e solitudini.

Un discorso come tanti in un giorno qualunque. Dinanzi ad un caffè, con un amico illuminato si parlava dei "commenti". Commenti di ragazzini, di gente seduta su una panchina di parrocchia o sul muretto di un giardino pubblico. Parole facili per etichettare un ragazzino o una ragazza. Parole che avevano l'intento di ridere e scherzare ma di quell'allegria a senso unico, di quel sorridere beffardo che sulla pelle dell'altro, del soggetto singolare e concreto, diventa l'ennesima cicatrice. Si parlava di omosessualità. "Cazzo, è proprio gay quello". "Ma la vedi come parla? Come si muove? Sicuramente è lesbica, una lesbicona". Commenti del genere quelli dei ragazzini. E spesso, anche quelli di qualche adulto. E chissà quanti di questi commenti una persona omosessuale ha ascoltato nella sua vita, fin dai primi passi in una scuola, con le apparentemente innocenti battute che non raggiungevano nessun altro obiettivo se non quello di far sentire diverso, anormale, inferiore, sbagliato. E certamente non è facile vivere così. Come psicologo spesso mi capita di ascoltare situazioni del genere, di toccare con mano i lunghi solchi insanguinati lasciati dai pesanti aratri delle parole, degli sguardi, delle battutine altrui. 
A volte anche la cosiddetta cultura gay non ha saputo spendersi in modo sapiente e strategico per attivare percorsi di riflessione seri volti a tutelare e a cambiare gli atteggiamenti sociali nei riguardi di chi si vuol far sentire a tutti i costi diverso (forse per paura di quella diversità che abita il cuore di tutti e che spesso viene sacrificata sull'altare di un'omologazione coatta che fa sentire sicuri e forti, e non mi riferisco alla sola diversità sessuale). Magari i tempi non permettevano la pace necessaria ad una riflessione seria e serena, perché occorreva anzitutto combattere per conquistare parola. O non saprei. 
Della politica poi non ne parliamo proprio: anche qui a volte la tutela delle minoranze sembra essere più una bandiera ideologica che una reale, seria, pacata presa di posizione nata da una riflessione altamente umana. Come se le unioni civili poi fossero il toccasana per lunghi anni in cui si è stati obbligati a subire comportamenti incivili.



La religione, almeno quella cristiano - cattolica, alla quale appartengo e che nel nostro paese nonostante tutto fa cultura, di aiuto serio non è stata per nulla capace, offrendo dubbie soluzioni: offerte di percorsi psico-spirituali ad orientamento riparativo, percorsi ascetici volti ad accettare la croce dell'omosessualità come prova mandata da Dio, offerta di una vita vissuta in modo angelico, come puri spiriti lontani da ogni sussulto affettivo. Con le eccezioni di qualche prete o religiosa che cerca di lavorare seriamente e in positivo, per poi scontrarsi con un muro dottrinale che sconferma ogni prassi diversa. 
Si, mi direte, però c'è Papa Francesco, che con il suo bellissimo "chi sono io per giudicare" ha aperto uno sprazzo di speranza. Speranza che colgo e condivido. Ma di cui non riesco a fidarmi del tutto, perché a distanza di qualche anno, la Congregazione del Clero scrive (e non potrebbe farlo contro il Papa) che le persone omosessuali "si trovano in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne". Frase per cui dovrebbe dimettersi una cifra non indifferente del clero cattolico, di ogni livello e grado.
Si, giovane omosessuale, si ragazza lesbica. 
Per i documenti ufficiali della chiesa cattolica romana tu puoi relazionarti correttamente solo con il mondo animale e vegetale (il che non è male considerando che sono i viventi che arrecano meno danni al pianeta e al cuore). Per il mondo politico e culturale spesso sei una bandiera ideologica. Per la gente del paese e i tuoi compagni sei motivo di qualche battutina. 
Ma chi penserà all'effetto di tutto questo? Chi capirà, al di la dei recinti sacri e degli orientamenti sinistroidi, la difficoltà del tuo percorso di vita che a volte si trasforma in una guerra ad oltranza fin dal rapporto con i tuoi genitori, guerra per affermare il diritto ad esserci che a volte si muta in un nascondino perenne giocato tra le lacrime? Quando arriverà, anche per te, il momento del "tana libera tutti"? 
Non lo so. L'unica cosa che so è che devo aspettare. Attendere con te l'alba di un mondo pacificato, in cui cessata ogni guerra, termini anche la tua: sarà il giorno in cui non dovrai più sperare di essere accolto e amato perché quella speranza sarà realtà. Nel frattempo, io, come tanti credenti e non credenti, come tanti professionisti delle scienze umane, uomini e donne di buona volontà e di onestà intellettuale....sarò dalla tua parte, per invitarti, parafrasando Tagore, a "sporgere la tua mano attraverso la notte, affinché io l'afferri, la riempia e la stringa, facendoti sentire che ci sono, per tutto il lungo periodo della tua solitudine". 

domenica 20 agosto 2017

Confini. Elogio e critica.

I confini intrigano sempre. Muovono desideri. Generano idee e fantasie. A volte fanno sognare nella sicurezza del proprio tepore sedentario. Altre volte invece sono il motore del cammino, la spinta inquieta a non accontentarsi, a fare attenzione che le radici non divengano prigioni. 

I confini sono il segno sfocato e ambiguo che provoca paura in chi è chiuso nelle proprie certezze da difendere a tutti i costi e stimola un riaccendersi del primitivo nomadismo in chi è attraversato dall'inquieta e travagliata ricerca del bene, del vero, del bello.


I confini sono fatti per indurre a restare a casa quando è il tempo di sostare e non si è abbastanza pronti o forti per attraversare il pericolo e correre il rischio del cammino.
I confini sono fatti per essere attraversati quando il desiderio e l'inquietudine prendono in mano il timone e la bussola per la vita felice diviene l'unico punto di riferimento. 

I confini sono fatti per ricordarci che non esistono e che sono frutto di convenzioni di uomini, sempre bravi nel dividere, nel delimitare, nell'arte di creare sottoinsiemi. 
I confini sono fatti per rammentare ad ogni uomo che il suo percorso, pure se in eterno movimento, si svolge nella parte e mai nel tutto, e che la sua porzione di vita non sarà mai la totalità della vita, che le sue idee non saranno mai la verità assoluta ma stelle accese in uno spazio chiaro di un universo infinito.

I confini separano: il tempo, i luoghi, le idee. Anche le persone.

I confini non appartengono solo alla superficie ma anche anche all'animo umano, alla mente e al cuore: dentro di noi vi è un mondo molto più vasto del pianeta terra. E quanti confini vi abbiamo posto. In alcuni momenti sono diventati vere e proprie barriere: alcuni territori li abbiamo dimenticati del tutto, altri mai esplorati, altri contrastanti tra loro emergono attraverso eruzioni di ansia e sismi di fragilità. 

Quanti confini dentro e fuori di noi.

 Perfino il mondo del sapere è pieno di confini: specializzazione e iper specializzazione. Quando penso alla mia formazione a volte mi perdo in domande ironiche quanto reali.  Sei psicologo? Si. Ma di quale area? E in quell'area di quale orientamento? E in quell'orientamento a quale corrente? E in quella corrente a quale maestro fai riferimento?
I confini delle scienze e delle materie spesso corrono il rischio di dimenticare l'aristotelica verità per la quale il tutto è maggiore della somma delle parti.

  Perfino le filosofie e le teologie pretendono di mettere confini alla vita e al pensiero di Dio, per dare all'uomo il potere di essere interprete assoluto e certo del volere divino, diventando padrone nelle coscienze altrui, senza tuttavia esser padrone della propria.

I confini, dentro e fuori di noi servono. 
Per capire, studiare, indagare, muoversi e orientarsi.  

Ma sono sempre relativi allo spazio del vivere. 

I confini aiutano l'uomo a orientare la vita.

 La vita orienta l'uomo a superare i confini.

lunedì 14 agosto 2017

Orsi , migranti e uomo demens

Il  silenzio, l'ascolto, il riposo, il confronto mite con la creazione, l'incontro-scontro con la propria mente, quella che non va mai in vacanza, quella che non si spegne: tutto questo è "esercizio spirituale" di sopravvivenza, ribellione ad un sistema che ruba tempo e gioia ai giorni, atto spirituale necessario per restare umani. Umani, umano. Più che un punto di partenza, questo "status" culturale è una questione di lotta costante, conquista continua e mai scontata tale è il pericolo di regressioni culturali e spirituali. 

Sbirciando i giornali, tante notizie. Uccisa un'orsa in Trentino per aver aggredito un uomo. Altra notizia da toni gloriosi: "Primo giorno "zero migranti". Così l'Italia ferma l'invasione". 




Argomenti che c'entrano poco tra loro. Mondi diversi e sponde distanti queste news. Eppure il mio cervello, quello che non va mai in vacanza, ha già costruito un ponte, ai suoi occhi solido e reale.
Cosa unisce un'orso ammazzato nel suo territorio (in un periodo in cui un progetto per la salvaguardia delle biodiversità ne tutela il ripopolamento) ai festeggiamenti giornalistici per il primo giorno senza sbarchi sulle nostre coste da parte dei migranti provenienti dalla Libia? Cosa unisce paesaggi e contesti così distanti come i boschi del trentino e la spiaggia di Lampedusa?  
Un'idea a mio avviso pericolosissima: l'idea dell'uomo demens di essere il centro di tutto. Un assolutismo individualista che ci impedisce di ragionare, pensare, progettare e amare  su vasta scala. 

Cos'è la vita di un orso rispetto ad un gruppo di cittadini che si sente in pericolo? Per carità il pericolo va evitato e l'uomo difeso. Ma possibile che non c'erano altre vie come la cattura , la cattività o altri stratagemmi per difendere tutte le vite, quella dell'uomo come quella dell'orsa? Importa poco: noi siamo il centroid tutto, con prerogative di vita e di morte su tutti. Poi si parlerà di ecologia, ripopolaizione della specie ed altro. Questo lo si farà nei convegni e in TV. Ma quando si tratta di difendere un mio interesse: sono il centro e decido io. Creato, specie in estinzione, opinioni e metodi diverse per risolvere un problema di pericolo? Vada tutto a farsi fottere: sono il centro e decido io. Importa ció che vedo, sento e decido per difendermi da ciò che credo essere un pericolo: ragionamenti e pensieri vengono dopo! Eppure la capacità di pensare oltre l'istinto è ciò che ci rende umani...

Come per i migranti. Festeggiamo pure il primo giorno senza sbarchi: importa ció che vedo, sento e decido per difendermi da ciò che credo essere un pericolo, ragionamenti e pensieri vengono dopo! 

Viene dopo, molto dopo il pensare che si può risolvere un sintomo ma non la malattia. Tanto io, il centro, l'uomo dei consumi, vedo solo il sintomo (sbarchi e accoglienza) ma non la malattia (povertà, guerra, siccità, ingoistizie globali prodotte da nostro occidente, nuovi campi di concentramento aperti in Libia, come Domenico Quirico ha fortemente narrato in questi giorni). Ciò che importa all'uomo dei consumi è il proprio tornaconto immediato: nessuna solidarietà agli altri umani, nè quelli del presente nè quelli della generazione che verrà, e di solidarietà e di amore verso      le altre opere d'arte del Creatore...non ne parliamo proprio. Così pensa l'uomo dei consumi, quello che si sente il centro, l'uomo demens.

Dal canto mio non mi sento neanche il centro di me stesso, e credo che la fonte del mio vivere sia altrove...e la mia anima, il mio cervello non va in vacanza. E le emozioni non smettono di fluire. E la gioia del riposo, della spiritualità, della bellezza non anestetizzano neanche un poco la sofferenza. Per un orso abbattuto. Per migliaia di vite respinte. Destinate alla morte. Per i miei simili, ranger stupidi di un bosco meraviglioso e  pieno di risorse per tutti, guardaboschi a servizio dell'egoismo del potente di turno, che oggi come ieri, pensa solo a se stesso. 

domenica 13 agosto 2017

Fiducia discreta. Libere riflessioni su MT 14, 22-33 e 1 Re 19

Versetti densi, carichi di simbologia e sfumature, di significati esegetici eruditi ed altri più evidenti. Ciò che rimbalza dinanzi agli occhi è la poetica di Dio, fatta di pochissime didascalie e moltissime figure retoriche, da scrutare, indagare, interpretare, cogliere nella loro profondità. Non mi sto riferendo al modo in cui è scritta la Bibbia ma piuttosto al modo con cui l'Amore creatore comunica la propria energia di vita al cuore di ogni donna e di ogni uomo. Non sceglie vie impositive, rifiuta le strade dell'evidenza: Elia non può rintracciare i suoi passi nel vento impetuoso, nel fuoco, nel terremoto. 




E così Gesù sul mare caotico e complesso della vita umana non si erge come un faro dalla luce chiara, come una boa imponente, come un Poseidon forte e dominante. Decide piuttosto di seguire apparenze discrete. Addirittura fino a sembrare un fantasma. Sembra quasi che il segreto per riconoscerlo sia presente più negli occhi di chi lo guarda che nella sua forza: così ad Emmaus, così sul lago dopo la resurrezione, così nel Cenacolo. Dio decide di essere con noi in questa navigazione ardua e a volte tempestosa che è la vita attraverso la via della discrezione, della non evidenza, con sembianze più da artista di strada che da grande pittore di cattedrali. Pare che a lui interessi più il nostro desiderio di ricercarlo che di possederlo, più la nostra capacità di fidarci che quella di essere sicuri. Fidarsi significa infatti imparar a camminare sul mare, non indietreggiare per la liquidità dei pavimenti su cui è facile inciampare annegando nel proprio errore. Fidarsi vuol dire non prestare attenzione ai venti che si agitano perché non è in essi che si decide il nostro destino ultimo. Fidarsi vuol dire volgere lo sguardo ad una presenza discreta, quasi fantasmatica ma più reale di tante evidenze. È questa fiducia che consente di non annegare tra i mulinelli di questo mare che è la nostra esistenza. Fiducia in un sussurro di  brezza leggera, in un Uomo discreto che reca in sè la sorgente della Vita, quella che non viene meno, quella che non delude. 

venerdì 4 agosto 2017

Volti di sole. Libere riflessioni su Mt 17, 1-9

"Se vuoi farò qui tre capanne. Per te, Mosè, Elia". Nel linguaggio simbolico ebraico, facilmente comprensibile per la comunità a cuil'evangelista Matteo si rivolge, la persona più importante in elenco è quella che sta al centro. In questo episodio della trasfigurazione nell'elenco di Pietro al centro non vi è Gesù ma Mosè. L'apostolo testardo fa fatica a comprendere la novità di Gesù,  vuole che il Maestro sia a servizio dei suoi criteri, dei suoi schemi, dell'immagine di Messia potente e impetuoso a cui lui si rifaceva (proprio per questo poco prima aveva ricevuto da Gesù stesso l'appellativo di Satana). Ma il Padre è chiaro: questi è il mio figlio, l'amato. È in lui, nel suo modo di agire, di parlare, di vivere, di toccare, di guarire, di perdonare, di ringraziare, di morire, di risorgere....è solo in lui che il volto del Padre appare chiaro, autentico. È attraverso la sua voce che si rende possibile il raccontarsi di Dio. Eppure la scena si conclude senza sfarzi, trombe e schiere di angeli. Si conclude con l'immagine di un uomo solo. Gesù solo. 
Ancora una volta l'evangelo ci invita a metterci in discussione, a rivedere con forza la nostra immagine di Dio. Ad amare la ricerca piuttosto che la verità preconfezionata, l'inquietudine del discepolato piuttosto che la sicurezza delle cattedre. 





La condizione divina, immortale, creatrice passa attraverso l'umanità di Gesù di Nazareth. Volgere lo sguardo al suo volto solare, rintracciare nel suo percorso il volere chiaro del Padre, accogliere il suo comandamento nuovo centrato sull'amore reciproco significa permettere alla nostra umanità di trasfigurarsi, di mostrare il senso profondo dell'essere al mondo, di dichiarare la nostra origine "controllata", doc: quella di figli di Dio.  È l'amore che trasfigura l'umano di Gesù. È l'amore che può trasfigurare ognuno di noi. È l'amore che trasfigura ai nostri occhi coloro a cui teniamo, seppure imperfetti e fragili, e a cui riusciamo a dire, tra lo scherzo e il serio, canticchiando e sorridendo, "o sole mio sta in fronte a te". 

Libertà e colori

Ascolto molte storie ogni giorno. In primis cerco di ascoltare la mia. In tutte rintraccio, anche dietro appetenti percorsi tortuosi, dolori sconvolgenti, frivolezze d'altri tempi, un impetuoso desiderio di libertà. L'anelito ancestrale e primitivo ad essere persone libere. Libere dagli schemi sociali ingabbianti. Libere dal giudizio moralistico dell'inquisitore di turno. Libere dal chiacchiericcio che muove il sottobosco di lingue e linguaccie genuine, sempre di origine incontrollata.  
Dietro questo desiderio di libertà vedo il muoversi sotterraneo di uno spirito di autenticità, di una voglia grande di essere se stessi non "nonostante" ma a partire dalle proprie fragilità, che a volte sono più  forti e potenti di ciò che  da sicurezza. 
In fondo la fragilità è la dimensione fondante dell'amore: non solo l'amore è un sentimento fragile ma è autentico solo quando passa la prova della fragilità dell'amata, dell'amato. Senza questa prova l'amore è solo per se stessi, variante di un narcisismo malato: e quanti malati ci sono in giro! 




In questi tempi epocali, in cui nuovi paradigmi antropologici si affacciano all'orizzonte, dovremmo imparare a ragionare a partire dai desideri di libertà e autenticità. A non demonizzarli ma a leggere in essi il volto di un tessuto umano che non vuole celarsi: forse scopriremo che non esiste il bianco e il nero ma un'infinità schiera di colori, a volte in armonia a volte incastrati a forza con logiche di compromessi  ma in ogni caso tutti e sempre cittadini del cuore dell'uomo reale. 

venerdì 28 luglio 2017

Gioia e stupore. Amore da condividere. Libere riflessioni su Mt 13, 44-52.


«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».


Un tesoro, una perla di grande valore, una rete piena di pesci. Tutte cose che quando nella vita vengono fuori sono portatrici di una gioia immensa. Certamente, il loro ritrovo, la loro accoglienza richiede discernimento, pazienza, capacità di "pesare" il valore delle cose, di constatare ciò che è buono e ciò che è marcio. Ma in ogni caso il punto di arrivo é sempre un'esplosione smodata di gioia, un'espressione facciale fatta di grandi sorrisi, corpi tesi in abbracci autentici  e accoglienti, soddisfazione immensa e briosa per il dono ricevuto. É così il regno di cui parla Gesù. Matteo lo definisce dei cieli ma in realtà ha molto a che fare con la terra. Per la comunità ebraica a cui Matteo scrive Dio era innominabile e allora per riferirsi al suo regno si preferiva usare l'espressione "dei cieli". In realtà é il regno di Dio, quel regno che abbraccia tutti coloro che fanno propria la mentalità di Dio così come la racconta e narra Gesù, con le sue parole, le sue azioni, il suo stile di vita. Un regno che ha come approdo il mondo che verrà ma che é ben radicato in questo mondo, in questa terra, in questa carne. 

Quando si incontra questo regno tutte le cose della vita perdono valore, o meglio ne acquistano uno nuovo, duraturo, derivante dalla consapevolezza che quando vi é l'amore vero tutto è sacro e eterno, ma senza l'amore tutto é marcio e fuggevole. Insomma nessuna guerra, nessun codice penale, nessuna immagine punitiva di un Dio che ha a che fare più con le nostre angosce che con la bellezza della buona notizia che si trova nel Vangelo. Nelle sue pagine si esalta la meraviglia dinanzi ad una perla preziosa,  la ricerca fascinosa di un tesoro, la soddisfazione di una pesca. Meraviglia contagiosa, gioia che non diviene godimento egoistico ma condivisione che nasce dal sapere che dà veramente gioia solo ciò che é condiviso, donato, intriso del mistero insondabile di un amore traboccante, alla cui mensa c é posto per tutti, sempre, ad ogni ora. 
 Appartiene a questo regno chi ha fatto sua questa logica, chi ha capito che il Vangelo se è davvero buona notizia provoca anzitutto gioia e allegria, stupore e meraviglia. Quando invece si preferisce percorrere la strada del codice penale, la via della rinuncia ad oltranza, la repressione di tutto ciò che è umano e nobile, dimenticandosi che tutto é dato per la nostra vita piena, perché la gioia di Cristo non ci venga strappata via....quando accade tutto questo si corre il serio rischio di servire le proprie turbe psichiche piuttosto che il Dio di tenerezza di cui Gesù ci ha sempre parlato, nel cui nome é morto, per il quale é risorto. 
Mi piace terminare questa breve e personalissima lettura del Vangelo, sempre opinabile e bisognosa di mille integrazioni, con le parole del film "CHOCOLAT", del sermone pasquale del gracile padre Henri, convertitosi al Vangelo dopo essersi liberato dalle impalcature del bigottismo: "Credo che dobbiamo misurare la bontà in base a ciò che abbracciamo, che creiamo, e a chi accogliamo. Penso che non possiamo andare in giro a misurare la nostra bontà in base a ciò che non facciamo, a ciò che neghiamo a noi stessi, a chi respingiamo". Altrimenti, aggiungo io, facciamo la fine di quel pesce marcio che si getta via. Attenzione: il cattivo della traduzione non rende. Letteralmente é marcio. Marcio é ciò che non dà vita e che non serve. Ciò che è morto. Come siamo noi quando non amiamo.

sabato 22 luglio 2017

Strappar via? Esplicitamente vietato. Libere riflessioni su Mt 13,24-43.




Da un pò di giorni, per motivi di tempo (la chiusura dell'anno sociale porta con se una stanchezza enorme) o di pigrizia, ho rinunciato a scrivere in questo blog, sopratutto per ciò che concerne le riflessioni domenicali. Un amico oggi mi invia un messaggio: "Non mi invii il link con la riflessione del blog da un pò di giorni ma vorrei proprio vedere cosa dirai sulla zizzania di cui parla il Vangelo". Beh la prima reazione è stata: devo subito scrivere...il mio carattere per natura accetta le sfide. 
La seconda è stato un pensiero: spesso mi capita di sentirmi zizzania e in qualche modo, visto che mi sento autorizzato dallo stesso Vangelo, dovrò pur difendere questa benedetta zizzania. 
Si. Gesù difende la zizzania. Per lui, nell'orto dell'umanità c'è qualcosa di più dannoso e pericoloso di una pianta narcotica come la zizzania. Cosa? Chi? Coloro che, basandosi sul proprio unilaterale giudizio, si sentono in continuo diritto di sentenziare cosa è zizzania  e cosa non lo è. Gli zelanti. I pii. I bigotti. Gli strenui difensori della morale e dei principi. Gli stessi che spesso, immersi nell'ipocrita ignoranza o nei propri irrisolti personali, amano dividere il campo del mondo in buoni e cattivi, un pò come una volta si faceva sulle lavagne delle scuole. 
Peccato però che il Maestro di Nazareth non usa il gessetto bianco e non ama catalogare ed etichettare. E sicuramente non ama che lo facciano i suoi. Perchè teme il loro giudizio, la loro spavalderia fondamentalista, la loro voglia di strappar via ciò che essi considerano male: “Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania? Vuoi che andiamo a raccoglierla?”- “No perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano”




Gesù non vuole che nessuno consideri zizzania l'altro. Perchè?  Perchè la visione dell'uomo, di ogni uomo (anche se indossa sacratissimi paramenti, colletti bianchi o ha atteggiamenti da guru) non è mai completa, è sempre relativa e per questo spesso fallace e capace di ingabbiare nella ristrettezza di categorie peccaminose e giudicanti ciò che è semplicemente bene e di dichiarare ottimo ed eccellente ciò che in modo evidente danneggia, reprime, restringe, riduce l'umano e il creato. 
Il compito di chi ha capito e accolto il pensiero di Gesù di Nazareth non è infatti dividere il mondo in promossi e bocciati, in piante buone ed erbacce cattive ma piuttosto quello di crescere non temendo la piccolezza e la fragilità, rinunciando alla tentazione della potenza: il piccolissimo seme di senape non diventerà mai una quercia o un cedro ma resterà sempre un alberello piccolo, un arbusto fragile il cui splendore risiederà esclusivamente nella capacità di accogliere il nido degli uomini, soprattutto di coloro che sono stanchi e feriti, offrendo loro un casa e un pò d'ombra. 
I cristiani, poi,  non hanno paura dinanzi alla grandezza e alla vastita della massa a cui anch'essi appartengono e per questo rinunciano ad ogni snobbismo, ad ogni ipocrita e finta superiorità, rinnegando ogni forma di clericalismo sacrale: scelgono di essere lievito, di mescolarsi, di fermentare dal di dentro la pasta, facendola crescere con il respiro dell'amore. 
Nessuna guerra a nessuna zizzania. Nessuna lavagna dei buoni e dei cattivi. Nessuna zizzania da strappare: a noi no, non solo non è dato e non è chiesto ma è esplicitamente impedito. 
Lui solo strapperà la zizzania. 
Lui solo con i suoi angeli sa cosa veramente non è erba buona, cosa non è amore, cosa in fondo è gia morto perchè privo della vita vera che è l'amore. Lui solo può far questo. Ripeto, noi no. Non possiamo strappar via niente, buttar via niente. Non possiamo buttar via neppure noi stessi: non siamo autorizzati a considerarci erba cattiva, zizzania da eliminare. Non possiamo strapparci via. Lui solo conosce l'ingrediente segreto che si cela nel cuore degli uomini. Lui solo, non noi.

sabato 24 giugno 2017

Paure e valore. Liberi pensieri su Mt 10,26-33

Di quante cose abbiamo paura? Di quali persone, situazioni o eventi? Sarebbero decine di migliaia le risposte, tutte degne, vere, originali. Nel corso delle terapie appena viene fuori una paura è mia usanza esplorarla con il paziente. Perché la paura non è un qualcosa di negativo, da combattere, come nessuna emozione del resto ma è piuttosto un mondo da conoscere, un segnale da cogliere, una mappa valida a orientarsi in un paesaggio spesso confuso e denso di nebbie. Certamente la paura può ammalarsi e divenire un elemento che blocca continuamente o, all'opposto, che mette in agitazione continua, ma quando decidiamo di darle domicilio gratuito e accogliente presso il nostro cuore la paura è capace di dirci molte cose interessanti riguardo a noi stessi, ai nostri desideri, alle nostre scelte.  Pensiamo, ad esempio, ad una coppia che alla prima crisi decide di rivolgersi ad un avvocato: al momento della rabbia tutto bene, ma sopraggiunta la notte i pensieri si vestono di paura, e così il respiro, i gesti, lo sguardo. La paura, in questo caso, potrebbe essere la salvatrice del loro matrimonio: sta dicendo di aspettare, che forse da separati la vita è meno bella e che buttare tutto giù dalla finestra alla prima crisi significa mettere in pericolo la propria felicità. Ecco inbquesto caso la paura è un'antenna invincibile capace di captare i pericoli veri. 

 

Il Maestro in genere riguardo alle paure ci invita a non lasciarci bloccare. Da vero uomo sa bene infatti che quando la paura si ammala si convince che tutto sia un pericolo o che niente lo sia. Un po' semplificando, possiamo dire  che Gesù ci invita a vivere le paure in modo sano, facendone oggetto di investigazione e discernimento ma senza lasciarci bloccare e inpringionare da esse. 
Per prima cosa il Rabbì ci chiede di non avere paura degli uomini e dal motivo che ne adduce, il fatto che nulla sarà nascosto per sempre, è lecito dedurre che si tratta di una paura in merito al giudizio che gli altri possono dire o farsi di noi, con lingue taglienti, parole svalutanti e etichettanti, atteggiamenti da chi si sente padrone perfino del pensiero di Dio e quindi capace di dividere il mondo in buoni e cattivi, peccatori e santi. Ecco di questi non occorre aver paura. Il "tutto puro" di turno, politico, presidente, catechista  o cardinale, adulto o ragazzo....è uguale a te. Come te oltre avtanti pregi, ha i suoi segreti, le sue magagne, i suoi pensieri cattivi e l'unico giudizio onesto che potrebbe dare, guardando alla propria realtà, è quello del perdono incondizionato. Quando non avviene questo vuol che è un ipocrita: uno che mette la maschera in modo stabile, a volte non la toglie perfino quando dorme, ed ecco che in questo caso è il più povero di tutti. Di conseguenza non c è niente da aver temere  perché il tuo valore dipende da ciò che sei e non da ciò che gli altri pensano, dicono, proclamano di te, sul tuo conto. Non a caso Gesù termina questo discorso affermando il valore enorme, dinanzi all'Amore creatore, di ogni vita, di ogni essere umano. Vali per il solo fatto di essere stato creato: questo ti rende unico e meraviglioso, il resto è contorno umano. Dare credito a queste parole del Maestro significa riconoscerlo come colui che svela il nostro vero valore e che, senza vergognarsi di nessuna nostra azione, non esiterà a proclamare questo nostro valore sorgivo perfino dinanzi al Padre, fonte della verità, il cui pensiero coincide con il suo. 
Tuttavia non dare credito a Gesù, a quanto afferma riguardo al nostro valore, significa negare che ciò che lui dice sia vero e vivere dando ascolto ad altri o ad altro, correndo il rischio di dimenticare il proprio valore e la propria capacità di amare ed essere amati: e chi non ama è fumo che cammina, morto dentro. 


Ma quando non ascoltiamo questo Vangelo di libertà chi ascoltiamo? Colui che ha il potere di uccidere corpo e anima. Il Padre stesso? Non sarebbe un Dio di amore, il suo potere dona vita e non la toglie mai. Il diavolo? Sarebbe più forte di Dio stesso. Chi allora? 
Io credo noi stessi: spesso, credendo di valere niente, a causa di ferite, traumi, errori propri o altrui ci convinciamo di essere poca cosa, meno di un passero e agiamo di conseguenza, senza vita piena, senza vero amore. Perché questi sono i messaggi che  diamo continuamente a noi stessi, magari un tempo li abbiamo ricevuti, ma poi sono diventati nostri: non sei degno di vivere, non sei capace di amare, non meriti di essere amato. 

Messaggi con i quali ci bombardiamo ogni giorno fino a renderci completamente indifesi ai "bombardamenti" altrui, fino ad autoconvincerci che siamo poca cosa, e cosa sbagliata a prescindere. La parola di Gesù è una parola di riscatto, di liberazione, parola  che ci invita ad aver paura di questi messaggi di morte, di questa pulsione distruttiva che ci abita. Si, ammettiamolo. Il potere più grande in merito alla nostra autodistruzione personale non appartiene agli altri ma a noi stessi. Ecco...è di questo lato oscuro che dobbiamo aver paura lasciando entrare in esso, con decisione, fatica, impegno, a volte con l'aiuto altrui, la luce del Vangelo, la forza di una mano tesa e di una voce che ci dice: tu vali  più di molti passeri! Sei fatto di cielo, nato per amare ed essere amato. 

sabato 17 giugno 2017

Pane e sorriso....libere riflessioni su Gv 6, 51-58

Si propone come "pane vivo", un alimento semplice, un nutrimento sicuro ed essenziale. Non qualcosa di statico, fatto da materia morta e trasformata chimicamente. Il suo pane è vivo: dinamico, cangiante, creativo, portatore di energie nuove di vita, donatore instancabile di nuove forze necessarie al cammino umano, che con la sua bellezza e il suo travaglio facilmente nasconde insidie di morte che richiedono un magis, un di più di vita. Ecco perché pane, ecco perché vivo. Una novità assoluta. Non si tratta di una divinità che richiede alimenti e doni dagli uomini, non c'é un olimpico dio che chiede sacrificio di vite umane, di carni o di chissà cos'altro. 

 

Qui vi è il volto di un Amore creatore, che crea ogni giorno, facendosi pane, rendendosi presente, non cessando mai di donare energie di vita e di amore, di generare spazi fantasiosi di carità e di speranza, con lo scopo genuinamente divino di rendere la terra e i cuori degli uomini più abitabili, più accoglienti, più disponibili ad essere felici. Qui, nel tempo presente e da qui...per sempre. Un pane di vita eterna: una vita talmente bella e indistruttibile per la quale la morte stessa diviene semplicemente l'apertura di una porta su un inimmaginabile mondo di amore. Insomma qui non c'è sacrificio chiesto a nessun uomo. Dio si mostra come pane, preferisce la debolezza della carne, rinunciando apparentemente a quell'onnipotenza che, appresa dai poteri umani ingiusti e feriti, ha per noi il sapore del giudizio implacabile e della condanna certa. Dio si fa debole per invitarci a cambiare l'idea che ci siamo fatti di lui. Attenzione: puoi passare una vita intera a credere con i tuoi sacrifici, penitenze e devozioni di servire lui ma a nulla servirà tutto questo se non impari dal suo essere pane, dal suo farsi debole, se non capisci che é lui che vuole servire te, sacrificarsi a te donandoti amore incondizionato. Perché? Perché il tuo sorriso libero è la sua gioia. 

lunedì 12 giugno 2017

Palcoscenico e danza, vita e uomini.

Ieri sono stato al saggio di danza di un'amica. Serata bella e leggera ma anche carica di passione e di emozione. Un palcoscenico sobrio che sembrava raccontare una discrezione gioiosa nel supportare i passi, i movimenti, le onde e le espressioni, i sorrisi e le tecniche di chi ha scelto questa forma d'arte, questa via del cielo che è la danza. Il palcoscenico mi è sembrato il grande protagonista: immenso, spazioso, solenne, ma nello stesso tempo mutevole di sfondi, di luci, di suoni. Capace di dare spazio alla maestria della singola ballerina come    al  goliardico battito di mani di un'intera compagnia. Un palcoscenico silenzioso, che ha permesso suoni e melodie diverse: tristi, gioiose, minime, forti, allegre e mistiche. 


 

Quel palcoscenico l'ho portato con me questa notte è prima di addormentarmi mi ha fatto pensare, come meditazione quotidiana, al palcoscenico quotidiano che è la nostra vita. Questa vita che ci ospita, ci accoglie, ci supporta in ogni respiro. Questa vita che sa essere solenne e graziosa ma anche dura e cupa...vita che non viene mai meno all'alleanza primordiale, al suo mandato divino: "Io sarò accoglienza, tu sarai la danza. Qualsiasi sia la musica, il ritmo, la scenografia e la luce. Tu non smettere, danza. Non stare ad aspettar fermo che da me venga qualcosa: non mi muovo. Io sono solo accoglienza. Certamente ti offrirò tutto ciò che ti serve, a volte sará amore, altre dolore. Più spesso....entrambi. Ma mai compirò un passo senza di te. Mai una tecnica senza di te. Mai un salto, una presa, un sorriso o una lacrima....senza di te. Il protagonista sei tu".  Credo che uno dei nostri problemi sia proprio la paura di danzare, il sederci aspettando che sia la vita a muovere i suoi passi, come se fossimo burattini passivi o peggio ancora spettatori di una messa in scena. Ma il palcoscenico non danza. Danzano i ballerini e le ballerine. E danzano sempre. Perché sono loro i protagonisti. Si, siamo noi i protagonisti della vita. Qualsiasi sia lo scenario che ci ha offerto, qualsiasi sia il tono della musica o la qualità delle luci solo a noi e alla nostra libertà è dato di danzare, rinunciando ad ogni tentazione di passività, carichi della resilienza imparata da tanti esercizi, spesso dolorosi,  desiderosi di non essere ai margini ma al centro delle nostre anime, della nostra storia. Pronti sempre ad andare in scena. Pronti sempre ad uscire, in punta di piedi, con leggerezza, per solcare nuovi palcoscenici profumati di primavera. Si, perché chi decide di danzare la vita può farlo in mezzo al gelo, con una scenografia invernale e una musica pesante ma sempre consapevole di avere, grazie alla sua scelta di danzare, il germe della  primavera custodito nel suo  cuore. 

sabato 10 giugno 2017

Amore inclusivo. Libere riflessioni sul Dio uno e trino.

Quante cose nella vita ci sembrano perse e irrecuperabili. Quante situazioni, persone, vite incontrate anche per un solo attimo e fuggite tra le mani come sabbia. Spesso mi capita di voltarmi indietro e gettare sulle pareti del cuore i mille "se" della vita. "Se avessi fatto questo", "se avessi preso questa decisione", "se avessi avuto il coraggio di  quella scelta", "se non avessi trascurato quella persona, quell'amicizia, quell'amore". Mi capita anche oggi come educatore, quando un ragazzo lascia la comunità che dirigo, o un bambino non frequenta più i nostri progetti. E capita sempre. Il "se avessi fatto" è il rigurgito delle scelte. Un rigurgito con  il quale alcune volte fai presto pace, in altre invece no. Non ci riesci quando hai in bocca il sapore della sconfitta, della persona perduta, dell'amore smarrito. È per  questi motivi che trovò il Vangelo proposto oggi dalla liturgia  una risposta grandiosa alle ansie degli umani: il Maestro ci dice che "chiunque crede in lui non va perduto". È una sua fissazione. Ci ritorna spesso. Raccontandoci della pecorella, a casa di Zaccheo, e in tante  altre salse. Non vuole perdere nessuno. 


Credere in lui - sia chiaro - non è una semplice adesione intellettuale ad un libro dalle mille veritá o ad un codice di leggi chiare e precise. Credere in lui significa dargli credito, donargli fiducia, concedergli quell'affidamento reciproco che appartiene al legame dell'amicizia. Anche questo lo ha detto: non ci chiama servi ma amici. Credere in lui significa fare nostro il suo pensiero, lasciarci condurre dal suo messaggio, permettergli di illuminarci con la rivelazione autentica e definitiva del nome e dell'essenza di Dio: AMORE. 
Se credi in lui ami. Non solo lui. Ma tutti. Ami anche te stesso. E l'amore non lascia indietro nessuno, non conosce resa, gioca oltre il fischio finale sapendo che perfino negli spogliatoi si può vincere una partita, anche se apparentemente nessuno lo saprà. In fondo il Figlio é venuto proprio mosso dall'Amore che ha dato origine a tutto, da quest'Amore, che chiamiamo Padre, ha tratto forza per amarci con tutto se stesso e oltre se stesso, rimanendo in noi nel suo Spirito...di Amore. La Trinità che oggi celebriamo non é un mistero di fede ma di amore. Non é una verità intellettuale ma la dinamica di vita che muove l'universo. La si coglie con l'intuito degli innamorati, quando ci si lascia afferrare da un relazione vera e libera ma anche appassionata e calorosa. Nel più piccolo degli amori, nel gioco della fusione dei cuori e della compenetrazione degli sguardi si capisce  cosa significa essere uno ma nello stesso tempo tre. Attenzione però: quest'Amore che il Cristo ci rivela ha un carattere preciso, lo ho detto prima. Non permette che l'uomo, che la sua vita,  che il suo cammino vada perduto per sempre. Qui vi é il segreto dell'inclusione. Nessuno escluso. Nessuno indietro. Nessuno ai margini.  C'è sempre speranza. Per tutti. La Trinità non é null'altro che una logica di  accoglienza reciproca ad oltranza, che il pensiero di un Dio che odia la solitudine e che freme dall'ansia di stare insieme. Un Dio che a volte con noi sembra giocare a nascondino ma proprio come in quel gioco, quando la tensione è alle stelle, e molti credono di aver perso....proprio in quel momento corre veloce, sorridente come un bambino, per urlare alla nostra vita e alla vita del mondo " trentuno salvi tutti!!!". Si tutti. Tutti smarriti. Tutti ritrovati. Tutti amati. 

domenica 4 giugno 2017

Il potere di esprimersi. Libere riflessioni sulla Pentecoste.

"Nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi"(At,l 2,11).  Bellissimo verso. Uno di quelli che apre le porte, spalanca gli orizzonti e ti dona una boccata di ossigeno. Uno di quelli che può mettere in crisi con la sua forza il tentativo di omologazione e uniformità che spesso si cela dietro il richiamo (falso) all'unità, al camminare insieme, al non dividersi, proprio di movimenti e culture religiose, politiche, sociali.





Il punto è che lo Spirito opera nelle persone e nelle comunità donando  "potere di espressione", attraverso modalità diverse, creative, originali. 
Lungi dal rendere tutto uniforme, tutto uguale, ogni persona specchio dell'altra, lo Spirito del Risorto sembra evitare con forza la tentazione dell'unica lingua. Non mostra nostalgie di babeliana memoria, non chiede ai discepoli di pronunciare le stesse parole allo stesso modo, in una deriva narcisistica e autoreferenziale ma sembra piuttosto ridestare la libertà di essere se stessi, di cogliere il proprio modo unico e creativo per  celebrare la vita, di consacrare le differenze e le originalità. 
In tempi di omologazione coatta, mentre le menti sono  governate dal vuoto delle immagini filtrate e il mondo dalla dittatura di un consumo che mette al centro le tasche piuttosto che il cuore, dovremmo domandarci se stiamo esprimendo davvero noi stessi, quella parola unica e preziosa che abita il nostro cuore e di cui solo noi siamo portatori. Se non lo stiamo facendo è perché in realtà decidiamo, forse per consolidata abitudine alla schiavitú,  di camminare secondo la carne. 
La carne  è il trionfo della paura, quella che ti dice che non vali niente, che non c è posto per te in questo mondo e che se vuoi un po' di ossigeno per campare devi imparare a rubartelo a piccoli sorsi, succhiandolo in quelle riserve di facile accesso fatte dal consumare tutto e tutti, dal denigrare gli altri per potersi sentire qualcuno, dal fare di se stessi e di chi ami non un'avventura rischiosa e bella ma un gioco al massacro, a chi si prende di più per poi gettar via l'altro come un bicchiere di plastica usato. La carne ti dice domina, usa, vinci. E fallo con mezzucci sporchi. Solo così ti sentirai amato e riempirai quel vuoto che nasce dalla tua grande verità: non vali niente. E capite che quando uno, o peggio un sistema, la pensa così ...l'omologazione al pensiero più forte, al leader carismatico di turno, al totem tribale del momento....è cosa facile. 
Lo Spirito invece parte da un altro presupposto. Lo psicologo canadese Eric Berne lo chiamerebbe l'okkeiness: tu sei ok, io sono ok. Tu vai bene, sei prezioso, così come sei. Indipendentemente da ciò che gli altri diranno di te, dalle ferite che ti porti dentro e da quelle che questo mondo vuole infliggerti per il tuo essere semplicemente te stesso. Tu vai bene. Indipendentemente dalle cadute che certo avrai incontrato, dalle caratteristiche della tua fede e del tuo pensiero, dalle tendenze del tuo orientamento sessuale o politico,  dall'etnia e dalla cultura di cui fai parte. Tu vai bene. 
Sei una nota preziosa che lo Spirito suona nell'armonia delle diversità, nella danza primordiale di un'umanita riconciliata non a partire dal'unico pensiero ma dalla "convivialità delle differenze", come direbbe Tonino Bello.  
Sei portatore raro di un dono prezioso, di una lingua unica. E non preoccuparti di non essere capito: corri il rischio di essere chi sei e di scoprirlo ogni giorno arricchendoti attraverso l'incontro. 
Lasciati affferrare dal "potere dello Spirito" che libera l'espressione più autentica della tua vita dandoti la capacità di essere te stesso, senza frustrazioni inutili, senza sacrifici malsani. 
Lasciati afferrare dal suo vento, incontenibile, perfino da quelle istituzioni religiose o correnti spirituali che credono di possederlo con una garanzia illimitata nei secoli. 
Lascia che lo Spirito vibri nelle corde della tua anima e dona al mondo la tua nota meravigliosa. E non aver paura di essere incompreso e di quanti ti derideranno: in fondo chi ha lo Spirito non solo si esprime liberamente ma possiede la traduzione simultanea dell'amore. Quella che crea lingue nuove, consacrando le differenze, plasmando in  un'unica armonia le mille diversità, aprendo orizzonti di vita vera e libertà autentica.

lunedì 29 maggio 2017

Amore, in circolo.

Tu, Cristo, amore sorgivo, non ci hai chiesto solo di spezzarci e donarci come pane per sfamare gli altri. Non ci vuoi capaci solo di dono. Ci chiedi anche l'arte dell'accoglienza, per nutrirci di chi, spesso senza saperlo, in nome tuo, si dona a noi. Non ci hai comandato di amare gli altri, e basta, ma di amarci "gli uni gli altri", in una melodia di reciprocità, la sola capace di generare musiche felici. 


 

venerdì 26 maggio 2017

Eternamente presente. Ascensione: libere riflessioni sul significato.

"Perchè state a guardare il cielo?". Una domanda irriverente, quasi beffarda, quella che Luca pone sulle labbra dei due uomini in veste bianca. Domande che nel suo Vangelo tornano: "Perchè cercate tra i morti colui che è vivo?".  Sembra che l'ovvietà non debba essere la caratteristica dei discepoli. Si, perchè è ovvio e spontaneo guardare il cielo mentre il Maestro sale tra le nubi, è ovvio e spontaneo restare a bocca aperta e fissare increduli un evento che lascia esterrefatti, è ovvia e spontanea la reazione di chi cerca la presenza di un cadavere nel luogo in cui in genere si trova, la tomba. 
Eppure l'evangelista ci chiede di assumere atteggiamenti non scontati: Gesù non lo si cerca tra i morti, in un al di là celebrato da una tomba sepolcrale; Gesù non lo si aspetta come un dono preconfezionato pronto a scendere dal cielo ogni volta che lo si invoca; Gesù non si trova lontano dalle fatiche quotidiane degli uomini, dai loro travagli inquieti, lontano dalle gioie e dai dolori che compongono la gamma estesa del sentire umano. 
Gesù è vivo e si cerca tra i vivi, sulla loro terra, non in cieli lontani. 
La Resurrezione ci dice che lui è presente, sempre, impossibilitato dall'amore a risultare assente. 
L'Ascensione ci dice non solo che è presente ma che il suo essere assume, attraverso la creatività dello Spirito, una forma nuova, spirituale, per la quale è impossibilitato dall'amore a distaccarsi da ogni creatura. Eternamente vivo. Eternamente accanto.


 

Presente nelle storie di difficoltà e disagio. Presente a Roma come nel cuore di Forcella. Presente nelle lacrime di un bimbo. Presente nello stupore di un anziano. Presente in una storia d'amore d'altri tempi. Presente in un matrimonio ricostruito su precendenti fallimenti. Presente nella voglia di vivere di un'amica che combatte contro un cancro. Presente nell'inquietudine di un credente che non si accontenta di una chiesa clericale. Presente, sempre e comunque tra le vicende della nostra vita personale e nelle pieghe della storia umana. Ignazio di Loyola lo diceva: cercarlo e trovarlo in tutte le cose.   E in questa eterna presenza accanto all'uomo cosa dice, cosa fa? Afferma il grande artista, missionario, medico, Albert Schweitzer: "Egli viene a noi come uno sconosciuto, senza nome, come venne allora, sulle sponde del lago, verso quegli uomini che non lo conoscevano. Dice la stessa parola - Seguimi - e ci indica le opere che vuole compiere nella nostra epoca. Ci comanda e, a quei savi o semplici che gli ubbidiranno, si farà conoscere nei compiti, nei contrasti, nelle sofferenze che dovranno sopportare in sua compagnia e, come per mistero ineffabile dalla propria esperienza apprenderanno chi è lui".
 

venerdì 19 maggio 2017

La fatica dei mattoni e la manifestazione del Risorto: libere riflessioni su Gv 14,15-21

"Chi ama me anche io lo amerò e mi manifesterò a lui" ma in cosa consiste amarlo? Nell'osservare i suoi comandamenti. Non qualche comandamento in generale, ma i suoi. Non un codice preesistente ma i comandamenti che Gesù ha donato, con le sue parole, con la sua vita. 
Nel Vangelo di Giovanni sono principalmente due: amatevi gli uni gli altri, lavatevi i piedi gli uni gli altri. Queste condizioni di apertura del cuore, di disponibilità ad accogliere l'altro e lasciarsi accogliere da lui, questa volontà generosa di "farsi schiavo" del bene altrui diviene la condizione necessaria per ricevere la manifestazione del Risorto. 

 

Credo che una pecca della tradizione religiosa a cui appartengo, sia quella di aver ridotto un mistero di amore ad un insieme di codici dottrinali, elevando l'adesione intellettuale a delle verità stabilite ad assoluto e separando la verità dall'amore. 
Ieri ad un incontro di preti me ne accorgevo: si parlava di divorziati risposati, di situazioni di fragilità e altro ancora. Eppure l'atteggiamento di fondo (non è colpa nostra, sono secoli di sedimentazione) è quello di chi deve giudicare chi ha ragione, chi è degno, di chi deve essere arbitro della grazia, quasi come se il Signore per donare l'amore di cui è fatto avesse bisogno del nostro placet, e attendesse magari che venissero prima risolti i "dubia" di qualche porporato amante del carnevale.   
Il fatto è che per conoscere il Risorto devi fare esperienza di un amore che libera, guarisce, che allarga gli orizzonti, che dona e perdona, senza la pretesa di condanne senza appello, sempre pronto ad indicare che alcune strade che portano alla morte ma con l'atteggiamento amante e disarmato di chi lo fa per condurre alla vita, di chi anche dietro un apparente no sa mostrare il grande si di Dio all'uomo, ai suoi bisogni di salvezza, ai suoi desideri di amare ed essere amato.
Per grazia di Dio non siamo orfani: lo Spirito della verità (al singolare, si noti) rimane in noi, dentro il nostro cuore, per spingerci a non arrenderci, a non smettere di cercare, per invitarci attraverso inedite creatività a costruire nuove case con mattoni impostati di pace e di giustizia, di tenerezza e di accoglienza. 
Se vuoi conoscere il Risorto non devi temere la fatica che questi mattoni donano a chi vuol lavorare alla causa del Regno: tanto prima o poi si scopre che ne valeva la pena di spendersi e donarsi perché sotto la superficie ruvida del materiale da costruzione vi è un terreno dolce, che custodisce il  seme di una vita nuova, bella, piena, eterna. La vita che il Risorto, a piene mani, ci ha donato.

domenica 14 maggio 2017

Una fiducia incrollabile, il Dio di Gesù. Libere riflessioni su Gv 14, 1-12z

Chi ha visto me ha visto il Padre. E' una frase rivoluzionaria. Che mette paura. Gesù ci sta dicendo con una chiarezza estrema che per capire cosa Dio pensa, vuole, desidera, occorre guardare a ciò che pensa, vuole, desidera Gesù. Per comprendere come Dio agisce occorre guardare a come ha agito Gesù. Tutto questo, in ogni tempo, ha messo paura perché in qualche modo ha sottratto i discepoli alle credenze religiose fondate su un sistema rassicurante di potere, culto e riti per restituirli all'essenziale: una fiducia incrollabile in un Dio che è amore, che pone come fondamento di tutto l'amore reciproco e il perdono incondizionato, che insegna che la strada della non violenza e del dono gratuito può portare alle estreme conseguenze e passare perfino dalla morte, trasformata dall'amore in un porta dolce spalancata su una vita nuova, la resurrezione. 
Questo il messaggio di Gesù di Nazareth. Questo ciò che il Padre è, pensa, vuole, agisce. Un messaggio profondo che lo Spirito continua a proporre dentro e fuori dal tempio, per le strade dei poveri e attraverso l'inquietudine di chi ricerca, tramite l'onestà intellettuale di chi scruta la Parola e i segni dei tempi e con l'aiuto di coloro che non si allineano e non si accontentano di seguire sterili dottrine. 

Papa Francesco sembra, pur attraverso momenti (forse inevitabili) di confusione comunicativa, voler ricondurre i discepoli del Maestro di Nazareth a questo fondamento cristiano, superando teologie che nel corso dei secoli sono arrivate a presentare un Dio orribile, violento e vendicativo, caratterizzato da un potere minaccioso e distruttivo, e pertanto bisognoso di essere addolcito e mitigato dalla figura di Maria. L'altro ieri a  Fatima Francesco ha detto:  Quale Maria? Una Maestra di vita spirituale, la prima che ha seguito Cristo lungo la “via stretta” della croce donandoci l’esempio, o invece una Signora “irraggiungibile” e quindi inimitabile? La “Benedetta per avere creduto” sempre e in ogni circostanza alle parole divine (cfr Lc 1,42.45), o invece una “Santina” alla quale si ricorre per ricevere dei favori a basso costo? La Vergine Maria del Vangelo, venerata dalla Chiesa orante, o invece una Maria abbozzata da sensibilità soggettive che La vedono tener fermo il braccio giustiziere di Dio pronto a punire: una Maria migliore del Cristo, visto come Giudice spietato; più misericordiosa dell’Agnello immolato per noi?

Il punto è proprio qui. 
Il Cristo non è un giudice spietato ma la via da seguire, intrecciando il proprio sentiero al suo fino ad arrivare, grazie alla sua presenza dentro il cuore di chi lo accoglie, a scoprire nuovi sentieri, con fedeltà creativa: lui ce l'ha detto, "farete cose più grandi di me". 
Il Cristo non è uno dal quale si ottengono, mediante processioni e rosari,  e la raccomandazione di qualche buon santo, favori a basso costo ma è piuttosto la vita da accogliere e da comunicare, una vita fatta di rischio, dinamicamente chiamata a mettersi in gioco per vivere l'avventura di un amore che ci restituisce al Padre e ai fratelli. 
Il Cristo non è il braccio michelangiolesco pronto a scagliare saette e fulmini sugli uomini, i quali, come la storia dimostra, per farsi del male e punirsi stupidamente  non hanno affatto bisogno di Dio ma è piuttosto la verità, che va accolta nella sua potenza scandalosa e nella sua bellezza attraente, verità che non significa insieme di dottrine ma piuttosto compendio di ciò che è l'origine e il fine dell'universo, di ciò che è essenziale per vivere e morire con fiducia: l'amore. 

In nome di questo Dio nessuno si può condannare, nessuno si può escludere, nessuno si può ghettizzare. Ma soprattutto nel nome di questo Dio, che Gesù con la sua vita di laico marginale ci ha mostrato, non si può comandare, né la coscienza né il portafogli. 
In nome di questo Dio si può solo amare.

sabato 13 maggio 2017

Amore che fa crescere, la vera festa!

Festa della mamma. Festa de papà. Festa dei nonni. Festa degli innamorati. Festa degli amici. E mai mancheranno feste per celebrare quella figura, quel tipo di amore, nel tentativo sociale di divinizzarlo, eliminando dal mito collettivo le ambiguità di cui l'amore, qualsiasi forma prenda, è sempre portatore. 

Nessuno pensi che attraverso queste parole si cerchi di distruggere o denotrizzare amori importanti, come quello materno o paterno, come quello di un partner o di un amico. Amori belli e essenziali per vivere. 

Ciò che qui si vuol dire è che il cuore colmo di gratitudine per tutto ciò che una relazione fondamentale della vita ha donato non deve far perdere di vista i mille rischi che un amore porta con sè, quando non accetta il mettersi in discussione, quando crede di essere il metro di ciò che è giusto, quando è mosso semplicemente da un proprio (spesso inconsapevole) bisogno piuttosto che da un sano e dinamico desiderio. 

Amare per bisogno significa rispondere ad un'esigenza che nasce da corpo e investe la relazione: parta sempre da qualcosa che manca a me e di cui sento necessità. Ad esempio: bisogno di  un abbraccio, bisogno sessuale, bisogno di colmare un vuoto affettivo. E i bisogni sono sacrosanti, sia chiaro: vanno trattati con delicatezza, e in modo sano occorre soddisfarli o prendersene cura quando "chiedono" ciò che fa male. 
Amare per desiderio vuol dire, invece, non guardare semplicemente al proprio vuoto interno ma dirigere lo sguardo oltre, fuori di sè, per costruire progetti, per muoversi verso un bene profondo e inclusivo, per disegnare, sovente attraverso la fatica, mappe valide per avvicinarsi il più possibile alla felicità che è tale quando non è solo mia ma include l'altro.
Credo che l'amore sano, quello che fa crescere, quello che guarisce e mette in moto la vita, è proprio di coloro che sanno accogliere i bisogni, propri e altrui, gestirli con discrezione  e lasciarsi muovere dal desiderio profondo, superando il meccanismo che fa dell'input un assoluto e accettando di giocarsi  la sfida dell'output. 

Quando c'è solo una dinamica di ingresso, quando anche l'amore che esce è un'altra forma che sbrana e divora, seppur vestita di dolcezza o sensualità, di religiosità o di mitologia, allora siamo in presenza di un'ambivalenza terribile. Causa non più di crescita e di vita ma di angoscia e di blocchi. 

In ultimo un consiglio non chiesto ( il Faber direbbe che è ciò che si dona quando si è esaurito il cattivo esempio): nessun amore è perfetto, ognuno di noi ha qualcosa da donare e qualcosa da farsi perdonare, ognuno di noi è mosso da desideri di vita accompagnati spesso da movimenti di morte, ognuno di noi fa l'esperienza di voler amare e essere amato e spesso si rende conto che invece di farlo divora o viene divorato, o, peggio ancora, ignora e viene ignorato. Allora come muoversi nel circolo di amore che in ogni caso è questa vita ?  
 
Occorre camminare evitando la distinzione in buoni e cattivi, in giusti e sbagliati e accettando che l'unica vera differenza che contraddistingue gli umani è tra chi accetta di mettersi in discussione lavorando su di sè e coloro che invece si credono più assoluti e infallibili di un dogma papale. 
Di questi ultimi amori, a qualsiasi categoria appartengano, abbiate sempre timore perché sono quelli che investono e non trattano, urtano e non negoziano, creano cloni di morte e non differenze di vita. E nel loro circolo si può restare sani solo se si conserva o si acquisisce un minimo di criticità.
Quando invece incontrate coloro che hanno capito di non essere Dio, coloro che accettano che l'aratro del cuore è il miglior strumento per crescere e far crescere, accogliendo l'auto discussione e il confronto come criterio fondante del vivere, quando incontrerà coloro che escono dalla logica dei mille bisogni inconsapevoli per imparare l'arte fragile del desiderio: beh, insieme a costoro potete costruire qualcosa di bello, di duraturo e di prezioso. È queste persone che vorrei si festeggiassero perché è grazie a loro che questa società  mantiene, pur nelle difficoltà, un livello di accoglienza capace di consentire la vita. E allora, se si tratta di loro, che sia festa della mamma, del papà e degli innamorati, degli amici e dei nonni. Ma senza di loro è bene che ce lo diciamo: non c è nulla da festeggiare!